UNA DIVAGAZIONE SULLE VIE DELLA LETTERATURA, A PARTIRE DA IL MONTE ANALOGO DI DAUMAL E DA IL GIARDINO DELLE ESPERIDI DI GIUSEPPE PONTIGGIA.
Ma se tu sai chiedere ancora, io non so dove ti venga questa capacità, poiché nessun uomo udì raccontare più a lungo, nel corso dei tempi.
Edda, Snorri Sturluson.
1. La fiducia dei discorsi.
La mia sfiducia nelle parole deriva dall’uso che ne fanno gli altri. Dall’abuso che ne fanno gli altri, che sono l’inferno (J.P. Sartre, Huis Clos).
Mi giustifico così, in questa maniera aberrante, solipsistica ed egocentrica, quando mi rifiuto di rispondere alle domande più banali che l’esperienza mi suggerisce. Rifiuto il grado zero delle domande: ogni idea mi sembra figlia di semplificazioni, banalizzazioni, retoriche.
Parlo come se fossi padrone del linguaggio, censore e custode del senso ultimo delle parole. Ma perché lo faccio?
Penso sia una forma di difesa, o meglio di auto-difesa. Già Aristotele soffriva qualcosa di simile, e molto più a ragione di me, quando nel quarto libro della Metafisica si lamentava di quelle persone con cui è impossibile discutere, persone che non hanno idee e parlano solo per sentito dire: piante, le definiva Aristotele.
Di fronte alla banalità di risposte evasive o ideologiche, in cui le parole fanno scudo al pensiero, l’unico rimedio che si trova è investire anche la domanda di quei difetti che caratterizzano le risposte: qui adduco un esempio, che non ho spazio per riprendere ora.
Così, di fronte a domande semplici, mi rifugiavo nella epoché, quella che, per la dottrina scettica, consisteva nella sospensione del giudizio. Ero scettico, infatti. Lo sono tutt’ora, in parte. Ma era uno scetticismo stanco, e che proprio per questa stanchezza presume di essere nel giusto, pur essendo nato dalla delusione piuttosto che dalla fiducia in ciò che si professa (ché anche per essere scettici, bisogna credere in qualcosa, come scriveva Agostino, cui avrebbe fatto eco Wittgenstein: bisogna partire da qualcosa, che non sia per forza giustificabile nei termini della ragione).
È una costruzione intellettuale, questa, che non sussiste soltanto nelle relazioni quotidiane o nei comportamenti sociali, dove perfino la violenza perturbante dell’amore si incaglia nelle maglie della negazione. Riverbera perfino nel momento della creazione artistica, ovviamente con dinamiche diverse, essendo diversi i contesti della comunicazione.
Nella scrittura, la negazione assume questa forma: quando prendo in mano una penna, mi ripropongo di non essere banale. È, credo, la prima regola cui mi sottometto, l’unica cui sono rigorosamente fedele. E non critico questa idea in sé (perché originalità e non-banalità sono due concetti diversi; e questa mia idea ha di certo migliori sostenitori, pensiamo soltanto al Flaiano dei Diario, di cui abbiamo già parlato qui). Ora, io critico il concetto di banalità che mi prefiguro quando vi faccio riferimento, un concetto che do per scontato. Solo al termine della pagina, infatti, mi rendo conto di un’altra legge: ciò che ritenevo fuga dalla banalità era soltanto una maschera, un modo di coprire l’incapacità di affrontare quelle domande semplici, racchiuse dentro le carcasse dei luoghi comuni. Mi rifugio nella letteratura per evitare di tentare la letteratura. Ancora, una forma di auto-difesa: troppo forte in me è il timore che, qualora la tentassi, la letteratura cederebbe, rivelando il carattere vacuo, diafano e mortale delle lettere scritte.
Insomma, il mio pensiero era soggetto a quel principio che viene ben circoscritto da Daumal: «[il pensiero, appunto] non osa più affrontare la realtà o il mistero faccia a faccia, direttamente; si mette a guardarli attraverso le opinioni dei grandi, attraverso i libri e i corsi dei professori».
Così, negli ultimi tempi, ci ho ripensato.
Tutto è cominciato, mio malgrado (soffro di quella sindrome che colpì anche Salinger e Céline), con un film. Ho visto La famosa invasione degli orsi in Sicilia (Lorenzo Mattotti, 2019, soggetto basato su una favola di Buzzati) e per la prima dopo mesi non ho opposto resistenza al racconto (che tuttavia riscatta certe semplicità del testo originale con una forza di immagini drammatica ed espressiva): mi sono fatto truffare dalla narrazione, come suggeriva già Gorgia in una di quelle frasi che la tradizione scolastica ha neutralizzato, e che tuttavia ben colgono la prospettiva ludica, di gioco linguistico, in cui si inscrive la stessa pratica della letteratura (ma di questo, molto meglio di me, ha parlato tempo fa Brioschi, cui sono debitore di molti spunti).

Il montaggio usa espedienti narrativi canonici: varianti intradiegetiche, mise en abime, cornici, eroi, aiutanti, riti di iniziazione e molto altro.
Quanto è bello, mi sono detto, fruire una storia per quello che è? Raccontarla, ascoltarla senza cercare di riassumerla in una visione o in un messaggio? Quanto è bello credere in ciò che si racconta? Nutrire una speranza, proporre qualcosa di vero.
Credere nella parola. Detto così suona male. Tuttavia non trovo un’espressione che meglio si attagli al mio pensiero (credere in una parola, affidarsi a un discorso, non sarebbero sentenze più chiare).
Il mio superiore aveva detto bene: io soffro di un bisogno inguaribile di capire. Non voglio morire senza aver capito perché ho vissuto. E lei, ha mai avuto paura della morte?
Rene Daumal, Il Monte Analogo.
2. Il problema dell’originalità.
Chi abbia un minimo di coscienza culturale (chi quindi cerchi di ricreare in sé il legame della tradizione che l’ha preceduto) rivive in sé le stagioni della storia, spesso in maniera disordinata e poco chiara. Dopo i sonetti, si passa alle canzoni; dalla lingua di Dante a quella di Petrarca (a pochi piace il Manzoni); dalle canzoni alle epistole, nonché a brevi trattati morali, ed ecco poi sorgere canti alla maniera di Ossian, o dediche mitologiche alla Holderlin; e poi di nuovo dalle epistole ai racconti, nonché infine dai racconti ad abbozzi di romanzi. Sempre, sempre fallimenti.
Giunti al racconto e al romanzo, si attraversano tutte le forme possibile, sino all’esaurimento (ovvero il post-modernismo più vacuo): dalla certezza del narratore alla crisi della voce, dalla fiducia nelle storie alla morte del plot, e così via. Senza ben comprendere il senso di certe espressioni, le si fa proprie: scienza delle letteratura, alienazione del linguaggio, consumismo della parola, dittatura dei mass-media, narrazione trans-mediale. Si pensa che la letteratura dipenda dal mezzo, e non da qualcos’altro. Basterebbe leggere un qualsiasi libro Morselli per capire quanto è vacuo un discorso del genere. Così, poco dopo, ecco questi termini tornare a noi come semplici etichette, vuote di contenuto reale. Che senso ha una letteratura che è scritta per essere studiata con apparati critici, che parla di sé e della sua storia senza comprendere che questo è un discorso sulle forme?
Alla fine di questi percorsi, quindi, un buon compromesso appare il modernismo (e penso a Kafka, a Musil, Faulkner, alla Woolf, a Joyce, a Lowry, ma anche a Proust), che, con un misto di voci differenti, ha saputo coniugare il sangue lento della modernità alla carne dura della letteratura passata: in Faulkner risuonano tanto la potenza dei cori di Eschilo quanto il genio snello di Euripide, o l’inettitudine di Amleto.
Tuttavia, anche questa sete di modernismo collassa. È vero: il collasso è più lento che in altri casi. Il furor avanguardistico declina in un attimo, non appena se ne realizza l’implicito autocompiacimento (una letteratura da laboratorio accademico, la definiva Berardinelli, parlando di Capriccio Italiano e dell’ultimo Zanzotto). Ma anche la fede nel modernismo crolla. Ci sono varie ragioni. Qui ne propongo una soltanto, di certo non esaustiva: la mia tesi è che ogni scrittore modernista è troppo perfetto per generare epigoni. È una scuola, quella modernista, che presuppone l’assenza di modelli fissi: in questo sta il suo più alto insegnamento.
Così, in assenza di maestri coesi, nel costante rischio dell’idolatria stilistica (e di mimesi incerte) la scrittura diventa una immane sofferenza, e non più una liberazione.
Ma, giunti a questo punto, anche quella retorica che lega la semantica della letteratura a quella della liberazione, si spera, è crollata. Se la letteratura e la scrittura servono soltanto per «sfogarsi» e «liberarsi», per «raccontare la propria storia», allora il pubblico dei lettori si riduce a una congerie di psicologi impreparati, o, alla peggio, di comari deluse e rancorose (perché ogni pagina ben scritta lascia nell’aspirante scrittore il vuoto di non averla scritta lui stesso). La narrazione si confonde con l’informazione. Ma ne ha già parlato qui Nicola Lagioia in un breve articolo su Bloom, e su questi temi non mi dilungherò.
Ma, quindi, perché scrivere?
E soprattutto, perché leggere?
Sono queste le domande più banali, per chi ama le parole. Ma penso sia una banalità buona, degna di attenzione. Le domande che farebbe un bambino. Le domande a cui, tutt’ora, non so rispondere (rispondere davvero, intendo, senza citare Alfieri, Manzoni, Proust, Brioschi, Barenghi, Todorov, Ferroni o qualche articolo a caso).

3. Qualche proposta.
È con queste certezze/incertezze negative che mi sono avvicinato a Daumal, un autore che, nella sua breve vita (muore a 36 anni, nel 1943, di tubercolosi), ha vissuto proprio queste stagioni: dal Grand Jeu e il surrealismo alla passione per il mondo orientale (i frutti della quale si possono leggere in Lanciato dal pensiero, ovviamente Adelphi, ma anche in un agile volume di cui si parla qui). Ma, tornando al nostro discorso, quanto mi faceva impallidire, in Daumal, non si celava tanto nella vicenda. Il Monte Analogo parla di una spedizione che un gruppo di alpinisti decide di compiere alla ricerca di quell’unico monte ancora inesplorato, la cui cima è irraggiungibile ma reale. Questo monte esiste, tuttavia, e Pierre Sogol (la grande guida intellettuale della storia) la giustifica razionalmente, allargando le possibilità della fisica ma partendo da premesse verosimili (ricordiamo qui il sottotitolo del libro: Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche). Ecco, in effetti anche la storia era geniale: genialmente semplice. Ma quanto mi faceva impallidire, appunto, era altro: c’è una speranza, nella lingua di Daumal, nella sua scrittura tersa e chiara e mai semplice, che mette i brividi.
Ci interrogò uno dopo l’altro. Ogni sua domanda – del resto molto semplice: chi eravamo? Perché venivamo? – ci prendeva alla sprovvista, ci perforava fino alle viscere. Chi è lei? Chi sono io? Non potevamo rispondergli come a un agente consolare o a un impiegato delle dogane.
Daumal, Il Monte Analogo.
Ed è questo che, mi sono reso conto, io chiedo a un testo. A un testo vero, un testo letterario. Che mi metta in difficoltà. O meglio, che mi rallenti. Voglio che un testo mi incateni gli occhi alla pagina, alle parole, alle lettere. Che mi faccia scavare al di sotto della pagina, al di sotto del supporto fisico che lo veicola. Al di sotto del linguaggio. La storia deve esistere al di là del libro, deve proiettarsi nel dubbio reticolo dell’esperienza: perché il Monte Analogo esiste davvero.
Altrimenti la letteratura non ha senso.
Ma come funziona, questo libro? Sappiamo solo che funziona, e, non essendo seguaci di Deleuze, ci basta questo.
Per fortuna la scrittura non si impara per regole e principi (come ha ricordato bene recentemente Vanni Santoni, nel suo recente e felice pamphlet), ma, mi verrebbe da dire, per immersione. La letteratura è un uso del linguaggio, filtrato e regolato da dinamiche sociali, e soltanto la pratica di questo linguaggio (e cioè la lettura, la lettura come esercizio spirituale), nei termini del gioco, permette l’evoluzione del gusto (per questo ci si fida sempre del «naso» di certi lettori, ed è difficile che due grandi lettori non sappiano riconoscere, pur avendo preferenze diverse, la grandezza o la modestia di un testo di cui discutono).
Ma, come al solito, mi perdo.

Dicevo, Daumal funziona.
Perché Daumal non è uno scrittore canonico, tradizionale, eppure è semplice. Riesce a creare un personaggio dipingendo il fallimento dell’idealismo, eppure è comprensibile senza aver letto Hegel et similia. Forse, il segreto è questo: che Il Monte Analogo non è un romanzo. O meglio, Il Monte Analogo è, prima che romanzo, letteratura. Ha la forza di recuperare quelle strutture (non in senso formale, sia chiaro) fondanti della narrazione, quelle strutture che prevengono la costituzione dei generi nelle società moderne, quelle di cui parla Proust nelle ultime pagine del Saint-Beuve. Così, l’elenco dei personaggi che (forse) parteciperanno alla spedizione, ha qualcosa del II libro dell’Iliade ma ha anche qualcosa di Sterne, eppure la serietà in cui il gesto della scrittura si istituisce ne disinnesca tanto la carica innovativa quanto quella mistica, smorzandola. Ogni parola fa parte del simbolo.
Il libro, diventa simbolo.
Così, mi rendo conto, deve funzionare la scrittura: deve istituire le sue leggi e, nello stesso tempo, naturalizzare il modo in cui lo dice per far emergere ciò che vuole dire. Sopprimere l’artificio. È questo, il suo uso del linguaggio.

Un altro autore ha avuto un’esperienza letteraria simile, seppure una quarantina d’anni dopo, rispetto a Daumal. Mi riferisco a Giuseppe Pontiggia, che in Italia è noto soprattutto per Nati Due Volte, ma che tuttavia non è stato soltanto un abile narratore. Pontiggia ha scritto di tutto, ed è passato pure per l’avanguardia del Verri (pensiamo a L’arte della fuga). Ma è stato anche un critico militante (ovverosia qualcuno che lottava per un’idea etica della letteratura). Le sue raccolte di saggi (che Mondadori ha ristampato nel corso del 2020, ahimè nella veste delle nuove edizioni «con il taglio», verso le quali colgo l’occasione per esprimere il mio disprezzo estetico: ripensateci!), le sue raccolte di saggi, appunto, costituiscono una sorta di miniera contro i luoghi comuni dell’Italia contemporanea (soprattutto le Sabbie Immobili), ma contengono anche amare e quantomai precise riflessioni sulla scrittura e sui libri: l’articolo più interessante, forse, è quello che tratta della anti-tradizione del romanzo italiano (si parla ovviamente di Morselli), ma qui ci interessa altro.
Il primo saggio de Il Giardino delle Esperidi si riferisce proprio a Daumal, nonché alla sua «chiarezza», e vi si afferma:
Questo impiego di un linguaggio corrente per esprimere verità remote dai luoghi comuni supera, sul piano della scrittura, sia la fuga conservatrice nel passato, sia la proiezione volontaristica nel futuro. Esso è, a mio parere, il compito più importante che spetta alla narrativa contemporanea.
Il Giardino delle Esperidi, Giuseppe Pontiggia.
Ci sarebbero altri passaggi del libro di Pontiggia da descrivere e da affrontare, ma le circostanze mi costringono a cercare contemporaneamente un fine e una fine di questo discorso, in cui mi rendo conto di aver dato sfogo alle mie inquietudini piuttosto che a un pensiero coerente.
Tuttavia spero di essere riuscito ad ancorarle all’interesse comune di chi vuole usare le parole senza ingannare nessuno, perché ritengo che le angosce, nonostante si servano di immagini individuali, usino la stessa sintassi per parlare di fantasmi, manie e altri demoni e ossessioni. Perché la letteratura è un’ossessione, un demonio, una mania.
Un fantasma.
4. Una conclusione.
Quindi, che cosa resta da fare a chi vorrebbe scrivere, dopo tutto questo? Messa così, la domanda non ha senso, me ne rendo conto. Forse, tuttavia, Daumal e Pontiggia, in modi diversi (l’uno con una narrazione allegorica, l’altro con dei saggi critici) e per vie diverse (l’uno cercando nell’Oriente, l’altro nelle radici etimologiche dell’Occidente) mi ricordano la necessità di uccidere il pensiero, di ritornare all’esperienza (guarda caso, già lo scriveva Benjamin nelle sue riflessioni su Leskov, appena dopo la prima guerra mondiale).
Questi autori, che consiglio di recuperare assieme, mi ricordano che la metafisica è empirica, che narrazione del particolare non significa narrazione del banale.
Che la banalità è l’uso (e qui torniamo all’apertura dell’articolo) che le persone fanno delle domande fondamentali, non le domande in sé. In questa prospettiva, il libro incompiuto di Daumal pare la metafora perfetta della nostra condizione: sappiamo dove si trova il Monte Analogo, ora ci resta solo di scalarlo.
«Disimparare a filosofeggiare, imparare a dire», scriveva Daumal.
Potremmo suggerire, oggi, di leggere per disimparare a leggere. Chiuderò completando la citazione che ha aperto questo articolo, le parole di Hàr a Gangleri, la chiusura della Edda di Snorri.
Ovvero, il significato della letteratura: «Ed ora, utilizza quel che hai appreso».