A partire da Una solitudine troppo rumorosa, Bohumil Hrabal, Einaudi, 2014

Leggendo «Una solitudine troppo rumorosa», di Bohumul Hrabal, si ha da subito l’impressione di avere tra le mani pagine preziose, che fanno quello che dovrebbe fare ogni opera d’arte: sollevare interrogativi.
L’opera di Hrabal è difficilmente definibile. «Non romanzo, non poesia» lo definisce Sergio Corduas, in un saggio in appendice all’edizione Einaudi del 2014. Parlando della lingua di Hrabal, aggiunge: «La mano che l’ha scritto non è leggera e non è pesante. È però una mano molto presente dalla prima all’ultima parola. Essa sembra, più che scrivere, toccare, palpeggiare quasi ciò che va scrivendo».
Ma qual è l’interrogativo (o gli interrogativi) che pone «Una solitudine troppo rumorosa»?
La solitudine di Hanta.
Pubblicato per la prima volta in Repubblica Ceca nel 1977, «Una solitudine troppo rumorosa» segue la parabola di Hanta che, da trentacinque anni, lavora a una pressa meccanica nelle viscere di un palazzo di Praga. Il suo compito dovrebbe essere quello di pressare libri destinati al macero, per poter essere smaltiti. Ma Hanta ha reso, quel lavoro da operaio, attività manuale e creatrice: egli crea parallelepipedi di carta in cui sigilla frammenti delle opere che andranno distrutte. E lo fa con cura, non pagine a caso ma pagine scelte: Goethe, Nietzsche, Kant e altri. Rivivono da morti all’interno di uno stesso spazio geometrico, perfettamente armonioso.
La sua vita, le sue giornate, dedicate tutte al lavoro, è perfettamente equilibrata. Hanta non sogna altro che andare in pensione, insieme alla sua adorata pressa meccanica con la quale è ormai in simbiosi: la macchina è estensione della sua coscienza sensibile. Sa che una volta terminato il lavoro, una volta che non dovrà più sottostare alle regole, gli orari, gli ordini del capo che non sopporta la sua negligenza e lo vorrebbe più produttivo, potrà dedicare tutto se stesso a comporre un unico e perfetto cubo al giorno. Magari, si ritrova a pensare, potrebbe organizzare anche una mostra.
Ma Hanta, lavoratore preso dal suo piccolo mondo, non si accorge, se non troppo tardi, che la società sta cambiando in modo radicale.
Prima si trova davanti a una nuova e gigantesca pressa idraulica, intorpidito (p. 56):
[…] e udii rimbombare quell’enorme pressa, allora mi misi a tremare e non riuscivo a guardare quella macchina, per un attimo stetti lì e guardai altrove, poi mi allacciai una stringa delle scarpette e non riuscivo a guardare negli occhi quella macchina.
Poi, facendosi coraggio, sale su una pedana e, sporgendosi dalla ringhiera, scorge gli operai. Quello che vede lo inorridisce (p. 59):
[…] sapevo d’un tratto che quello che stavo vedendo era una nuova epoca nella mia branca, che quelli erano ormai altri uomini, un altro modo di lavorare. […] E il colpo più grosso me lo dette quando vidi come quei giovani operai bevevano senza il minimo pudore latte e succo di pomodoro, a gambe larghe e con una mano alla cintola e di gusto bevevano direttamente dalla bottiglia, e qui seppi che era definitivamente la fine dei vecchi tempi, che era finita l’epoca in cui l’operaio, in ginocchio e fra le dita e i palmi, combatteva col materiale come se ci lottasse, lo metteva sulle pale, sicché ogni vecchio tipo d’operaio era distrutto e imbrattato dal lavoro, perché doveva far spremere il lavoro al corpo. Ma qui era incominciata una nuova era con nuovi uomini e nuovi procedimenti di lavoro, una nuova epoca che durante il lavoro beve latte, sebbene ciascuno sappia che una vacca crepa magari di sete piuttosto che bere latte.
È una frattura: Hanta si trova proprio nel punto in cui la società si è rotta, sospeso tra due epoche, quella che finisce e quella che comincia.
Pochi giorni dopo, viene sostituito alla pressa meccanica dal nuovo tipo di operai. È la società che avanza, che lo schiaccia.

Libertà o Rivoluzione?
Arrivati a questo punto possiamo tentare di definire l’interrogativo di «Una solitudine troppo rumorosa».
Hanta non può sopportare il nuovo tipo d’operaio, che lavora non con la macchina ma per la macchina. La società ha creato un nuovo linguaggio, un rito, fatto di gesti ripetitivi, infiniti, e l’uomo non è che una parte di una massa senza identità.
Hanta si trova a dover scegliere: piegarsi al cambiamento, alla rivoluzione, e vivere da esiliato in un mondo che non si conosce, oppure decidere per la propria identità e la libertà assoluta?
[…] con l’anima compresi che non sarei mai più stato capace di adattarmi, che ero in quella stessa situazione dei monaci di alcuni monasteri i quali, quando seppero che Copernico aveva scoperto le leggi cosmiche diverse da quelle che valevano fino allora, che la terra non era il centro del mondo, ma al contrario, allora quei monaci avevano commesso suicidi collettivi, perché non riuscivano a immaginare un mondo diverso da quello nel quale e per il quale erano vissuti fino ad allora.
Per Hanta non resta altra soluzione che la morte: suicidarsi per rinascere.
Se la libertà, molte volte, passa per la rivoluzione, non è detto che la rivoluzione porti alla libertà.
Aggiungo, provocando: non sono forse, le rivoluzioni, atti di forza che, in ogni modo, limitano le libertà delle persone che stanno dall’altra parte? La contraddizione dei processi rivoluzionari è nella loro natura. La società in cui è vissuto e ha lavorato Hanta ha guadagnato dallo sviluppo tecnologico e produttivo, ma l’uomo, l’individuo, come ne è uscito?
Le parole e la società delle rivoluzioni.
La parola, nell’opera di Hrabal, è al centro dell’azione. Hanta confeziona pacchi infarciti di parole ma, attenzione, il suo creare non è un tentativo di salvare i libri destinati al macero. Lui vuole salvare la frase, la parola. Scrive sempre S. Corduas: «Non a salvare metaforicamente cultura e storia, come a prima vista può sembrare, mira Hanta-Hrabal, ma a salvare se stesso e noi. Anzi, io penso che l’unica cosa per la quale il verbo salvare sia opportuno è la possibilità stessa di fare: arte, cultura o vita che sia».
Che le parole siano importanti e che esse siano rivoluzione, non deve stupire. Basta guardare alla contemporaneità che definirei, senza esitazione, la società delle rivoluzioni. #Metoo, #BlackLivesMatter, l’uso dello schwa (ə), le lotte della comunità LGBTQ+ (e potrei continuare la lista per molte righe), sono le rivoluzioni del nostro tempo.
Noi ci troviamo nello stesso punto in cui si è trovato Hanta, negarlo significa essere ciechi nel mondo.
La caratteristica comune, e una delle più interessanti, è che queste rivoluzioni non solo nascono e si diffondono attraverso il linguaggio, ma comportano una rivoluzione dello stesso. Su Internazionale c’è un articolo del filosofo e scrittore Paul B. Breciado sull’argomento, se vi interessa approfondirlo.
Aggiungo solo una cosa, per chiudere. Serva da riflessione o suggerimento.
Il ruolo dell’arte.
L’arte – i parallelepipedi creati da Hanta, il personaggio, il libro composto da Hrabal, lo scrittore – cos’è? Libertà o Rivoluzione.
L’opera d’arte, almeno nella sua concezione più pura, è assoluta.
L’opera d’arte compie la storia, nel momento hic et nunc, della sua esistenza irripetibile nel luogo in cui si trova (W. Benjamin). Da quel momento l’opera guarda alla storia dall’alto, non è più sottomessa al tempo. Anche nell’ipotesi della sua distruzione completa, potrà continuare a esistere nella memoria: privata della materia ma non della sostanza.
E nell’atto della creazione essa non è più di nessuno: né dell’artista né del mondo ma universale.
In poche parole, l’opera d’arte è sia libertà che rivoluzione.