I dialoghi immaginari sono una delle cose che più spesso occupano la nostra mente: ritorniamo all’infinito a quella volta in cui abbiamo usato un “ma” invece di un “perché”, un “forse” invece di un “certo”. Altre volte invece ci figuriamo incontri immaginari, parole impossibili o riflessioni improbabili: la maggior parte delle volte in realtà, siamo sinceri.
Forti di questa consapevolezza, qui a Judith, ci siamo chieste di cosa mai avremo potuto parlare se per qualche motivo ci fossimo trovate sedute in un caffè di Milano con Rossana Rossanda, “la ragazza del secolo scorso”, così come si definisce lei stessa nell’autobiografia uscita per la prima volta nel 2005 e ristampata da Einaudi a partire dallo scorso ottobre.
Certo le cose da chiederle sarebbero state tante, gli argomenti da toccare delicati e difficili, così come il riuscire ad estorcerglieli, lei che per buona parte dei suoi anni ha preferito il silenzio alle parole o meglio ci è stata prima di tutto abituata. Nelle sue pagine ci siamo tuffate e abbiamo tentato di vedere il mondo dai suoi occhi, attenti e infaticabili.
Ma chi era Rossana Rossanda?
I più la definiscono come esponente di un partito, quello comunista, che a un certo punto non l’ha voluta più, che l’ha radiata dalla sua schiera quando ancora di cose da dire ne avrebbe avute tante; tutto qui? È difficile dirlo, lei stessa fatica a trovare le parole giuste per descriversi, o meglio per capirsi.
Spesso per farlo tenta la via del negativo, provando a tracciare i suoi stessi confini a partire da ciò che proprio non la può abitare: non era una femminista, non era una partigiana, non era un’antifascista, almeno non subito; non era tante cose ed è proprio lì, tra quegli spazi, che abbiamo cercato di scovare quella che è stata la sua vita.
Ciò che è emerso da questo nostro scavare tra i ricordi che percorrono lo sviluppo dello Stato Italiano fino a oggi, è che la parola, quella ad alta voce, non è stata fin da subito sua compagna, tanto meno nell’infanzia, quando ancora la piccola Rossanda abitava con la famiglia a Pola, allora italiana, e la guerra non faceva parte del suo paesaggio quotidiano.
Era il non detto a governare il rapporto familiare, anche quando, a seguito della crisi del ’29, si ritrova a vivere in più città nel giro di poco tempo, per poi stabilirsi a Venezia, presso la casa di una zia. “La famiglia proietta sul mondo il suo povero metro, silenzio e sordità”, ci dice spiegandoci come vivessero tra le mura di casa lei, sua sorella e i suoi genitori.
Forse non avremo avuto tanto di cui parlare in quegli anni, o meglio, di cose da dirci. Rossanda con molta probabilità ne avrebbe avute, ma sarebbero rimaste confinate nella sua testa, in attesa di essere rielaborate.
Senza troppo sforzo ce la possiamo immaginare immersa tra le letture, in un mondo inesistente, che però conosce meglio del reale, chiuso fuori dalla porta di casa, confuso. I libri prima della politica. Fin dal lontano ’37, quando il padre le regala due volumi di Renato Serra: “da allora i libri furono altro, decisi che sarei diventata bibliotecaria di una città antica e silenziosa, coperta di fogliame e avrei letto e scritto sulla ballata di Paul Fort”. Leggere e rileggere, leggere per leggere e basta. Questo fa nella prima parte della sua vita.

Se la guerra tinge di rosso le vite di gran parte della popolazione, su di lei quel colore non attacca, almeno non subito: “Io sono stata una ragazza grigia”, dice raccontando la sua vita; perché la realtà, la storia che spesso tende a semplificare il corso degli eventi dimentica quelle esistenze che sono state ai margini, tra il bianco e il nero, come quelle dei Rossanda. La famiglia non sentiva o se lo faceva rimaneva in silenzio, per questo motivo il conflitto non li invadeva. Allenati a omettere, non a reagire, non condividevano e non condannavano il fascismo, ne restavano fuori, commettendo quello che lei a posteriori definisce: “un peccato mortale”.
Chi non aveva avuto in casa, o vicino, degli antifascisti impegnati era venuto su nel silenzio. Al più – non so se meglio o peggio – un rifiuto che pareva aristocratico della politica, cosa sporca della quale non occuparsi. I miei appartenevano a questa cieca categoria.
Donna, figlia, sorella, studentessa e italiana. Parole che, una volta adulta, sente non riescano a definirla, non completamente almeno; italiana poi, proprio non ci si sente. Chi poteva veramente affermare di ritrovarsi tra quelle lettere? Quale identità poteva avere uno Stato che fondava le sue radici in due, tre generazioni al massimo? L’Italia, dice Rossanda, allo scoppiare del secondo conflitto mondiale non si era mai misurata con le proprie idee, era stata lontana dalla Rivoluzione francese, al più c’erano state delle rivolte: un collage di fragilità e servaggi, questo era lo Stato che Mussolini aveva portato in guerra.
Ma come crearlo uno Stato se lo si stava distruggendo sul nascere? Di idee ce n’erano, soprattutto con il termine del conflitto, subito dopo, quando ancora l’impronta lasciata dalla guerra fuori dalle trincee non era chiara, almeno non quanto lo fu in seguito.
Trovare una voce
È proprio in questo tempo che Rossana trova la sua voce, una delle sue voci: “non so come mi resi conto che i più sicuri di quello che facevano erano i comunisti”. Queste furono le premesse per l’incontro con il partito che sarà la sua casa in qualche modo tutta la vita, anche quando i muri saranno diversi e smetteranno di aprirle la porta.
È un suo professore che gliela spalanca per la prima volta, Banfi, che la spinge verso letture nuove, verso parole lontane da quelle che ha letto affamata fino a quel momento; è con lui che dice addio alla sua intangibilità e si rende conto che il silenzio in cui ha trascorso i suoi giorni passati è stato tutt’altro che innocente.
Quei libri la scortecciano, la liberano e le parole che sono all’interno ci restano per poco: adesso è libera di farle risuonare.
L’Italia è in ginocchio, tutto è da rifare, lo sente lei e lo sentono i suoi compagni, il presente li incalza senza tregua e loro cercano avidi un modo per renderlo vivo e giusto.
Rossana ripensa a quegli anni con un misto tra amarezza e consapevolezza; ne è conscia adesso, non poteva esserlo allora, che il comunismo era “reticente ai vertici e disinformato nei corpi militanti”, ma fu il solo, a suo parere, a innervare la speranza, a dare coscienza alle masse che non l’avevano mai avuta.
La nascita del Manifesto
Certo, così come in ogni famiglia che si rispetti non sempre tutto va come vorremo, e la sua tendenza ormai radicata a scostarsi da ciò che non la rappresenta o non rappresenta chi le sta attorno, la porta ad allontanarsi sempre di più da casa sua, fino quasi a dimenticarne l’indirizzo o meglio a trovarne uno nuovo.

Nasce così “il Manifesto”, il giornale fondato insieme ai compagni Luigi Pintor, Valentino Parlato e Lucio Magri.
Stiamo preparando una rivista mensile. Non vengo a chiederti un consiglio, mi diresti di no. Vengo a informarti.
Così dice a Berlinguer quando ancora l’idea sta prendendo forma.
Il partito mal tollera, anzi non tollera affatto la linea via via sempre più divergente presa dal giornale e nel 1969 Rossana viene radiata dal PCI, insieme a lei tutti quelli che avevano dato vita al Manifesto.
Non ero risentita né a dire la verità turbata. Ebbi una fitta al cuore solo quando furono spalancate le porte abitualmente interdette ai fotografi, e fummo, per così dire, dati loro in pasto. Non lo avevo previsto. Non eravamo più dei loro, dei nostri.
Non ha mai smesso di parlare Rossana Rossanda, lo ha fatto continuando a dirigere il giornale, lo ha fatto attraverso i suoi libri, le sue numerose interviste, anche quando l’Italia la osservava da un po’ più lontano, da Parigi.
Non possiamo prendere un caffè con lei oggi, possiamo però immaginare che se fossimo lì, mescolando lo zucchero sul fondo della tazzina, ci direbbe di parlare sempre, di dimenticare il grigio, di essere fedeli a noi stesse, anche quando farlo può significare lasciare indietro parti di sé, consapevoli di trovarne di nuove.