Ieri sera ti ho detto che forse un giorno me ne andrò, e tu mi hai detto: – Dove? – E io: – A stare con il Buon Dio -. E tu: – Perché? – E io: – Perché sono vecchio -. E tu mi hai detto: – Secondo me non sei vecchio -. Hai infilato la tua mano nella mia e hai detto: – Non sei tanto vecchio, – quasi che questo sistemasse la questione. Ti ho detto che forse avrai una vita assai diversa dalla mia e da quella che hai avuto insieme a me, e sarebbe meraviglioso, perché si può vivere bene in tanti modi. E tu mi hai detto: – Questo me lo ha già spiegato la mamma -. E poi mi hai detto: – Non ridere! – Perché credevi che stessi ridendo di te. Hai teso la mano coprendomi le labbra con le dita e mi hai rivolto quello sguardo che in tutta la mia vita ho visto solo sul viso di tua madre e di nessun altro.[…] Mi stupisco sempre un po’ di non avere le sopracciglia strinate dopo essere stato esposto a uno di quegli sguardi. Mi mancheranno. Sembra assurdo pensare che i morti soffrano di nostalgia.
(Gilead, Einaudi Editore)
Gilead: una città, tutte le città
Ci sono dei libri che si mostrano con calma. Che sfidano la tenacia di chi li ha tra le mani, come a dire: “vediamo se hai abbastanza voglia di vedere come sono veramente, di andare al centro delle mie pagine”.
Gilead, di Marilynne Robinson non è uno di quelli: dove si andrà a parare lo si capisce, senza sforzo, da queste prime righe. Il centro della questione però è un altro.
Lo schema su cui si regge il libro è quasi banale. C’è una città, Gilead. C’è un padre anziano, il reverendo Ames, c’è una moglie giovane, Lila e soprattutto c’è un figlio. Il reverendo sa di dover morire e vuole aver qualcosa da lasciare alla propria famiglia. Qualcosa che in una situazione diversa avrebbe distribuito nel corso degli anni, attraverso parole e gesti. Non potendolo fare si racconta attraverso una lunga lettera che in qualche modo gioca con i piani temporali.
È quasi come se, di pagina in pagina, leggessimo con gli occhi futuri del figlio, stando tuttavia in un presente la cui voce fluisce attraverso un defunto.

Sto cercando di volgere la nostra situazione al meglio. Ossia sto cercando di raccontarti cose che non mi sarebbe mai venuto in mente di dirti se ti avessi cresciuto io, come padre e figlio, in un rapporto improntato all’abituale cameratismo. Quando le cose prendono il loro corso normale, diventa difficile ricordare quelle importanti.
Raccontarsi attraverso il mondo
Pensando di trovare un modo di raccontarsi al figlio, il reverendo Ames fa un’attenta riflessione sulla propria vita. Pensa a tutto ciò che il bambino non ha potuto e non potrà vedere di lui. Lo fa attraverso gli occhi di un uomo che ha predicato per decenni, trovando nella religione la definizione di sé stesso.
Racconta del rapporto con suo padre, della frattura creatasi fra lui e il nonno, anch’egli reverendo, ma disposto, in periodo abolizionista, a cercare la pace attraverso la violenza.
Ames ci racconta infatti l’episodio di una domenica in chiesa, che vede il nonno predicare sul pulpito con la camicia ancora macchiata di sangue dei confederati. Il vecchio plasma secondo i suoi obbiettivi le parole della Bibbia, giustificando il male fatto con un bene ultimo e superiore. Messaggio questo quanto mai moderno vista la deriva Trumpiana degli ultimi anni.
Fino a che punto è giustificabile la violenza se il fine perseguito è la pace? Almeno una volta nella vita ciascuno di noi se lo è chiesto.
Chi è Marilynne Robinson?
Perché il nome di Marilynne Robinson sia poco conosciuto tra gli scaffali delle librerie italiane, non è ben chiaro. Soprattutto visto i riconoscimenti che la scrittrice ha ottenuto negli Stati Uniti. Il premio Pulitzer nel 2005 proprio con Gilead, per esempio, o ancora l’essere stata inserita, nel 2016 dal Time, nella lista delle cento persone più influenti del mondo. Perfino un’intervista con Obama, in cui a essere intervistata però, era lei.

Una delle resistenze forse è proprio legata al personaggio e ai personaggi che la scrittrice sceglie di raccontare. Dopo Gilead infatti, continua con le storie dei suoi abitanti in altri tre libri: “Lila”, che dà voce alla moglie del reverendo, “Home”, secondo il punto di vista di Boughton, migliore amico di Ames, reverendo anche lui e, a breve in uscita in Italia, “Jack”, che racconta le vicende del figlio di quest’ultimo.
Gli occhi di chi guarda sono quelli del reverendo, pertanto i pensieri sono quelli di uomo che ha fatto della cristianità la propria vita.
Che sia questo ad allontanare la scrittrice dall’interesse dei lettori italiani? Il rapporto con la religione, con la religione e la letteratura in particolare, in Europa è storicamente abbastanza complicato. Spesso, anche per una certa superficialità di chi si trova a dover scegliere che cosa leggere.
Tuttavia, come dice Nicola Lagioia in un articolo uscito per Internazionale nel 2016, la religione, nell’opera della Robinson, non cerca proseliti, non tenta di convincere chi legge a credere in Dio. Funziona piuttosto come griglia, come schema interpretativo cui tutti, dall’ateo all’induista possono fare riferimento, cercando di evolvere.
Interpretare ed evolvere
In qualche modo i libri della scrittrice, e con loro il credo cristiano lavorano come mezzo di emancipazione, come ponte verso la trascendenza. Se gran parte della nostra esistenza la impieghiamo a tentare di liberarci dalla violenza, dalla paura e dall’egoismo, non siamo già trascesi rispetto a coloro che in passato, per esempio, non trovavano delle ingiustizie nella schiavitù?
Certo, il Vangelo, la Bibbia, le sacre scritture profetizzano un mondo altro, in Grazia di Dio. Se tuttavia ci allontaniamo da un’interpretazione strettamente cristiana potremmo aspirare a un’evoluzione diversa, a una dimensione che veda come punto d’arrivo non necessariamente il Dio della Bibbia, ma un qualcosa di impensabile prima di esserci arrivati.
Gilead è il racconto di un uomo che più di perdere sé stesso ha paura di perdere suo figlio e sua moglie. Attraverso questa paura trafigge ciò che è stato, confessa le sue debolezze, racconta quanto ha tenuto nascosto anche a chi gli è stato vicino tutta la vita. Si interroga su come sarebbe potuto essere e su come sarà una volta morto.
La rivoluzione di Marilynne Robinson
Questa è la vera rivoluzione della Robinson: mostrarci uno schema, uno scheletro per tentare di leggere il mondo, senza tuttavia imporcelo. Il reverendo non vuole convincerci a credere in Dio, così come non vuole farlo la scrittrice. Non è un inno alla cristianità il suo, quanto più un modo di trascendere la realtà, consapevole delle altre vie per arrivare al medesimo risultato. È la ricerca della grazia il centro della narrazione. Una dimensione che va oltre la specifica confessione religiosa.

Qui a Judith questo libro è arrivato quasi per caso, o meglio in un modo che potremmo definire molto millenial: attraverso una pagina Instagram.
Il mondo di una vecchia cittadina dell’Iowa ci sembra così lontano dalle pagine colorate tra cui lo abbiamo trovato, ma in fin dei conti il contenitore conta poco.
“Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”, dice un motto che abbiamo messo alla gogna; traslandolo a nostro favore possiamo tuttavia dire che nascosta tra le righe, affacciata a una qualche finestra di Gilead, c’è di fatto una Grande Donna e noi siamo felicissime di averla scoperta.