Stoccolma, 1993. Toni Morrison ha sessantadue anni ed è la prima donna
afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura. Il pubblico si alza in piedi ad applaudirla appena la vede entrare nella Grand Hall dell’Accademia svedese accanto al Re Carlo XVI Gustavo di Svezia. La donna sorride, saluta la platea con un cenno di capo e si avvicina ai microfoni. La prima parola che dice è grazie. La voce è incrinata dall’emozione.
Toni Morrison ha raccontato le storie di chi è sempre stato periferico nella letteratura, come disse lei stessa “gli afroamericani non sono mai stati al centro della scena e così li ho messi io.” La sua letteratura è un’esplorazione delle profonde ferite del razzismo raccontante attraverso la violenza, la perdita di identità culturale, la discriminazione, la riscoperta del folklore e dell’assurdo.
L’autrice afroamericana si avvicina ai microfoni e ringrazia ancora l’accademia per l’assegnazione del Nobel. Si schiarisce meglio la gola e davanti al Re Carlo XVI Gustavo di Svezia e a tutta la platea racconta una favola. Ecco il discorso integrale e la traduzione sotto:
“C’era una volta una vecchia, cieca ma saggia”. O era un vecchio? Forse era un guru. O un griot che calmava i bambini irrequieti. Ho sentito questa storia, o una esattamente uguale, nella tradizione di diverse culture. “C’era una volta una vecchia. Cieca. Saggia”. Nella versione che conosco, la donna è figlia di schiavi, nera, americana, e vive da sola in una piccola casa fuori mano. La sua reputazione di saggia è senza pari e fuori questione. Tra la sua gente, la vecchia è sia la legge che la trasgressione della legge. Il grande rispetto in cui è tenuta e il timore reverenziale che suscita si estendono ben oltre il circondario, raggiungendo luoghi remoti, arrivando fino alla città dove l’intelligenza dei profeti rurali è fonte di divertimento.
Un giorno la donna riceve la visita di alcuni giovani che sembrano determinati a sbugiardare la sua chiaroveggenza e a smascherarla come una ciarlatana. Il loro piano è semplice: entrare in casa sua e porle la sola domanda la cui risposta dipende esclusivamente da ciò che la rende diversa da loro, una differenza che considerano una profonda mancanza: il suo essere cieca. Stanno in piedi davanti a lei e uno di loro dice: “Vecchia, ho un uccello nella mia mano. Dimmi se è vivo o se è morto”. La donna non risponde e la domanda viene ripetuta: “L’uccello che ho in mano è vivo o morto?” Ancora non risponde. È cieca e non può vedere i suoi visitatori, figurarsi quel che hanno in mano. Non sa il loro colore, il loro sesso, la loro provenienza. Sa solo qual è il loro intento. Il silenzio della vecchia si protrae così a lungo che i tre giovani stentano a trattenere le risa. Poi finalmente lei parla, e la sua voce è sommessa ma severa. “Non lo so” dice. “Non so se l’uccello che tieni in mano sia vivo o
morto, so però che è nelle tue mani. È nelle tue mani”. La sua risposta può essere intesa a significare: “se è morto, potresti averlo trovato così, o potresti averlo ucciso; se è vivo, puoi ancora ucciderlo. Sta a te decidere se continuerà a vivere. In ogni caso, ne sei responsabile”.Per aver ostentato il proprio potere di fronte alla sua impotenza, i giovani visitatori vengono redarguiti e messi di fronte alla responsabilità non solo dell’atto di scherno, ma della vita dell’esserino che hanno sacrificato al loro scopo. La vecchia cieca sposta l’attenzione dalle asserzioni di potere allo strumento tramite il quale quel potere viene esercitato. Le speculazioni su cosa (al di là del suo fragile corpo) quell’uccellino-nella-mano possa significare mi hanno sempre attratto, tanto più adesso che sto riflettendo sul lavoro che faccio e che mi ha condotto qui. Scelgo dunque di leggere l’uccello come il linguaggio, e la
donna come una scrittrice di una certa esperienza. È preoccupata di come la lingua in cui sogna, quella che ha avuto in dono alla nascita, sia manipolata, utilizzata, e le venga persino celata per qualche scopo nefando. Poiché è una scrittrice, pensa al linguaggio in parte come
a un sistema, in parte come a una cosa viva sulla quale si ha il controllo, ma soprattutto come a un’azione che implica delle conseguenze. Allora la domanda che i ragazzi le pongono: “È vivo o è morto?” non è irreale, giacché lei considera il linguaggio suscettibile di morte, di cancellazione; di certo in pericolo, e possibile da salvare solo tramite uno sforzo di volontà.Ritiene che, se l’uccello nelle mani dei suoi visitatori è morto, i custodi siano responsabili del cadavere. Per lei una lingua morta non è soltanto una lingua non più parlata né scritta, ma una lingua che manca di flessibilità e che si accontenta di ammirare la propria paralisi. Come il linguaggio statalista, censurato e censurante. Senza scrupoli nelle sue
funzioni di ordine pubblico, non ha desiderio o scopo che non consista nel mantenere campo libero al proprio narcisismo narcotico, alla sua stessa esclusività e predominio. Per quanto moribondo, non è privo di effetto, perché ostacola attivamente l’intelletto, tiene a bada la coscienza, sopprime il potenziale umano. Sordo a ogni interrogazione, non può formulare né tollerare nuove idee, sviluppare pensieri diversi, raccontare un’altra storia, colmare silenzi impenetrabili. Il linguaggio ufficiale, forgiato per sancire l’ignoranza e preservare il privilegio, è un’armatura lustrata per abbagliare col suo luccichio, una corazza vuota che il cavaliere ha già abbandonato da tempo. Eppure è lì: ottuso, predatorio, sentimentale. Pronto a sollecitare la reverenza degli scolari, a fornire riparo ai despoti, a evocare nel pubblico falsi ricordi di stabilità e armonia.La donna è convinta che quando la lingua muore per incuria, disuso, indifferenza e mancanza di considerazione, o quando viene uccisa per decreto, non soltanto lei ma tutti coloro che la utilizzano siano responsabili della sua dipartita. Nel suo paese, i bambini si sono morsi via la lingua e usano proiettili piuttosto che ripetere la voce di una lingua
ammutolita, disarmata e disarmante, di un linguaggio che gli adulti hanno del tutto abbandonato come mezzo per cogliere il significato, per fornire una guida o per esprimere amore. Ma la donna sa che il suicidio linguistico non è una scelta limitata ai bambini. È comune tra gli infantili capi di stato e i mercanti di potere il cui linguaggio svuotato li lascia privi di accesso a ciò che resta dei loro istinti umani, perché parlano soltanto a chi obbedisce, o per imporre obbedienza. Il saccheggio sistematico del linguaggio può essere riconosciuto dalla tendenza, da parte di coloro che lo utilizzano, a rinunciare, per intimidazione e soggiogamento, alle sue molteplici sfumature, alle sue complessità, alle sue proprietà ostetriche.Il linguaggio oppressivo fa più che rappresentare la violenza: è violenza; fa più che rappresentare i limiti della conoscenza: limita la conoscenza. Che sia l’oscurante linguaggio di stato o il linguaggio fantoccio di media dementi; che sia l’orgoglioso ma calcificato linguaggio dell’accademia o il linguaggio della scienza guidato dal mercato; che sia il linguaggio maligno della legge senza etica o quello designato all’emarginazione delle minoranze, che nasconde il saccheggio razzista nella sua sfrontatezza letteraria: in ogni caso, deve essere respinto, castrato e smascherato. È il linguaggio che beve sangue, che affonda i denti nei punti vulnerabili, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di
rispettabilità e patriottismo mentre avanza inesorabile verso la linea di fondo e le menti che hanno toccato il fondo. Linguaggio sessista, linguaggio razzista, linguaggio teistico: fanno tutti parte dei linguaggi della politica del dominio e non possono, e non intendono, permettere una nuova sapienza, né incoraggiare il reciproco scambio di idee.La vecchia è vivamente consapevole che nessun intellettuale mercenario, né insaziabile dittatore, né politico pagato o demagogo; nessun falso giornalista sarebbe persuaso dai suoi pensieri. C’è e ci sarà un linguaggio esaltante per tenere i cittadini armati e in armi; massacrati e massacranti nei supermercati, nei tribunali, uffici postali, nei parchi, nelle camere da letto e nei viali; rimescolando e rievocando un linguaggio per mascherare la pietà e lo spreco della morte inutile. Ci sarà un linguaggio più diplomatico per incoraggiare lo stupro, la tortura, l’assassinio. C’è e ci sarà un linguaggio più seducente, variato, fatto apposta per strozzare le donne, per stringere le loro gole come quelle delle oche che servono a produrre il paté, con le sue indicibili, trasgressive parole; ci sarà ancora altro linguaggio di sorveglianza mascherato da ricerca; linguaggio politico o storico costruito per ammutolire la sofferenza di milioni di persone; linguaggio reso attraente per far coinvolgere gli insoddisfatti e deprivato nell’attacco ai loro vicni; arrogante linguaggio pseudo empirico inventato per chiudere la gente creativa in gabbie di inferiorità e di disperazione. Sotto l’eloquenza, il fascino, le associazioni di studiosi, per quanto entusiasmanti e seducenti, il cuore di una tale lingua sta languendo, o forse non batte affatto – se l’uccello è già morto. Lei ha riflettuto su che cosa avrebbe potuto essere la storia intellettuale di una disciplina se non avesse insistito su, o non fosse stata forzata dentro, lo spreco di tempo e di vita che le razionalizzazioni e le rappresentazioni del dominio richiedono – discorsi letali di esclusione che bloccano l’accesso alla cognizione sia per chi esclude sia per l’escluso.
Il lavoro della parola è sublime, la vecchia pensa, perché è produttivo; questo significa che assicura la nostra differenza, la nostra umana differenza – il modo nel quale noi siamo diversi da altre persone viventi. Noi moriamo. Questo può essere il significato della vita. Ma noi creiamo un linguaggio. Questo può essere la misura delle nostre vite. «C’era una volta,…» i giovani visitatori fanno alla vecchia una domanda. Chi sono loro, questi ragazzini? Che cosa hanno fatto di quell’incontro? Che cosa hanno sentito in quelle parole finali: «L’uccello è nelle vostre mani»? Una frase che apre verso una possibilità o che che chiude a chiave la serratura? Forse quello che i ragazzini hanno capito era: «non è un mio problema. Io sono vecchia, donna, nera, cieca. La saggezza che ho ora è quella di sapere che io non posso aiutarvi. Il futuro della lingua è vostro.» Se ne stanno in piedi là. Supponete che non vi fosse nulla nelle loro mani? Supponete che la visita fosse solo un espediente, un trucco per ottenere che si parlasse di loro, per essere presi seriamente come non erano mai stati prima? Una possibilità di irrompere, di violare il mondo adulto, il suo miasmatico discorso su di loro, per loro, ma mai diretto a loro? Urgenti domande sono in gioco, compresa quella che essi hanno fatto: «L’uccello che abbiamo in mano è vivo o morto?» Forse la domanda significa: «Qualcuno può dirci che cosa è la vita? Che cosa è la morte?». Niente trucchi; nessuna stupidaggine. Una domanda diretta degna dell’attenzione di una saggia. Una vecchia. E se la vecchia e la saggia che hanno vissuto la vita e affrontato la morte non possono rispondere, chi può? Ma lei non può; conserva il suo segreto; la sua buona opinione
di se stessa; le sue gnomiche affermazioni; la sua arte senza impegno. Mantiene le distanze, le fa rispettare e si ritira nella singolarità dell’isolamento, in uno spazio sofisticato e privilegiato. Nulla, nessuna parola segue la sua dichiarazione di trasferimento. Il silenzio è profondo, più profondo del significato che si può ottenere dalle parole che ha detto. Mette un brivido, questo silenzio, e il i ragazzini, annoiati, lo riempiono con un linguaggio inventato lì per lì. «Non c’è nessun discorso,» essi le chiedono, «nessuna parola che tu ci puoi dare, che ci possa aiutare ad aprirci un varco attraverso il tuo dossier di fallimenti?
Attraverso l’istruzione ci hai appena dato, che non è per nulla istruzione perché noi abbiamo fatto prestato molta attenzione a quello che hai fatto come pure a quello che hai detto? «Noi non abbiamo nessun uccello nelle
nostre mani, né vivo né morto. Abbiamo solo te e la nostra importante domanda. Il niente nelle nostre mani è qualcosa che tu non riesci a vedere, e neppure a indovinare? Non ti ricordi da giovane quando il linguaggio era magico senza significato? Quando quello che potevi dire non aveva significato? Quando l’invisibile era ciò che l’immaginazione si sforzava di vedere? Quando le domande che richiedevano risposte bruciavano al punto che tu tremavi con furia se non le sapevi? «Dobbiamo cominciare ad avere consapevolezza di una battaglia che eroi ed eroine hanno già combattuto e perso lasciandoci con niente nelle mani eccetto quello che voi hai immaginato fosse lì? La tua risposta è scaltra, ma la tua furbizia imbarazza noi e dovrebbe imbarazzare anche te. La tua risposta è indecente nella sua auto congratulazione. Uno scritto fatto per la televisione che non ha senso se non c’è nulla nelle nostre mani. «Perché non ci hai raggiunto, toccato con le tue soffici dita, ritardato il morso sonoro, la lezione, almeno finché non sapessi chi eravamo? Hai disprezzato così tanto il nostro trucco, il nostro modus operandi, da non poter vedere quello che eravamo confusi su come attirare la tua attenzione? Noi siamo giovani. Siamo immaturi. Abbiamo sentito per tutta la durata della nostra breve vita che dobbiamo essere responsabili. Cosa mai potrebbe significare nella catastrofe che è questo mondo è diventato; dove, come il poeta dice, “nulla deve essere esposto poiché è già chiaro.” La nostra eredità è un affronto. Tu vuoi che noi abbiamo i tuoi occhi vecchi, bianchi e vedere solo crudeltà e mediocrità. Pensi che siamo abbastanza stupidi da giurare il falso a noi stessi ancora e ancora fingendo una nazionalità? Come osi parlarci di dovere quando noi siamo immersi fino al collo nella tossina del tuo passato? Tu consideri insignificanti noi e l’uccello che non è nelle nostre mani. Non c’è nessun contesto per le nostre vite? Non musica, non letteratura, non poesie piene di vitamine, nessuna storia connessa all’esperienza in differita con la quale ci aiuti a partire seriamente? Tu sei un adulta. La vecchia, la saggia. Smettila di pensare a salvare la tua faccia. Pensa alle nostre vite e parlaci dettagliatamente del tuo mondo. Raccontaci una storia. La narrazione è una radice, che crea noi proprio nel momento in cui essa è creata. Noi non ti biasimeremo se la tua capacità eccede la tua presa; se l’amore incendia così le tue parole che esse fuggono in fiamme e non lasciano nulla se non la loro ustione. O se, con la reticenza delle mani di un chirurgo, le tue parole fanno la sutura solo nei punti dove il sangue potrebbe scorrere. Noi sappiamo che non lo potrai fare correttamente – una volta per tutte. La passione non è mai abbastanza; e neppure è abile. Ma prova. Per nostra fortuna e tua dimentica il tuo nome per strada; dicci che cosa il mondo è stato per te nei momenti bui e alla luce. Non dirci quello che credi, che cosa temi. Mostraci la gonna larga e il punto che dipana l’amnio della paura. Tu, vecchia, benedetta con la cecità, puoi parlare la lingua che ci dice ciò che solo il linguaggio può dire: come vedere senza le immagini. Solo la lingua ci protegge dall’essere spaventoso delle cose senza nome. Solo la lingua è meditazione. «Dicci che cosa vuol dire essere donna in modo che possiamo sapere che cosa vuol dire essere uomo. Che cosa vuol dire muoversi ai margini. Che cosa vuol dire non avere casa in questo luogo. Essere sbandato da uno che conoscevi. Che cosa significhi vivere ai margini di città che non si addossano la tua compagnia. «Dicci qualcosa sul battello che si è allontanato dalla battigia a Pasqua, placenta in un campo. Dicci qualcosa sui vagoni carichi di schiavi, come essi cantavano così leggermente che il loro respiro era indistinguibile dalla neve che cade. Come sapevano dal piegarsi della spalla più vicina che la prossima fermata sarebbe stata l’ultima. Come, con mani giunte a preghiera sul loro sesso, pensavano al calore, e poi al sole. Alzando le facce come per trattenere. Girandosi come per trattenere. Si fermano ad una locanda. Il guidatore e il suo collega entrano con la lampada lasciandoli canticchiare nel buio. Il vapore emesso dal naso del cavallo nella neve e il suo fischio e il suo sciogliersi sono l’invidia degli schiavi infreddoliti.
«La porta della locanda si apre: una ragazza e un ragazzo escono dalla sua luce. Salgono sul vagone. Il ragazzo avrà un fucile fra tre anni, ma ora porta una lampada e un boccale di sidro caldo. Gli schiavi se lo passano da bocca a bocca. La ragazza offre pane, pezzi di carne e qualcos’altro: uno sguardo negli occhi di colui che serve. Un aiuto per ciascun uomo, due per ciascuna donna. E uno sguardo. Essi guardano indietro. La prossima fermata sarà l’ultima. Ma non questa. Questa è riscaldata.» C’è nuovamente silenzio quando i ragazzi hanno finito di parlare, finché la donna rompe il silenzio. «Finalmente», dice, «ora
ho fiducia in voi. Vi affido l’uccello che non è nelle vostre mani perché voi lo avete realmente catturato. Guardate. Che bello che è, questa cosa l’abbiamo fatta insieme»
La conferenza di Morrison prende la forma di una parabola che illumina il potere del linguaggio sia come forza vitale sia come strumento di distruzione. Come dice Morrison, “Il linguaggio oppressivo fa più che rappresentare la violenza; è violenza; fa più che rappresentare i limiti della conoscenza; limita la conoscenza“.
Morrison ritorna su questo punto in Burn This Book, una raccolta di saggi sulla scrittura e la censura con diversi autori. L’autrice scrive: “Alcuni tipi di traumi vissuti da alcuni popoli sono così profondi, così crudeli, che a differenza del denaro, a differenza della vendetta, persino a differenza della giustizia, dei diritti o della buona volontà degli altri, solo gli scrittori possono tradurre tale trauma e trasformare il dolore in significato, affinare l’immaginazione morale “. Morrison continua: “La vita e il lavoro di uno scrittore non sono un dono per l’umanità; sono la sua necessità“.
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