La filosofia è fatta di torti, di pericoli, e se non ti metti in pericolo, se non ti scopri, proprio fisicamente, scoprirsi nel senso di togliersi i veli, barriere, non impari.
Un pessimo filosofo è sicuramente uno non innamorato.
Andrea Colamedici

Una conversazione sul Mito e sul mondo, con il filosofo Andrea Colamedici
Andrea è quel tipo di filosofo che non vorresti incontrare mai se sei uno di quelli che vogliono starsene tranquilli, fermi, nelle proprie convinzioni. Andrea è quel tipo di filosofo che invece di farti stare sui libri ti fa scendere dalla sedia e ti fa andare in giro a cercarla a piedi, la conoscenza, perché è soprattutto una faccenda di muscoli e fatica, attenzione e desiderio.
Andrea Colamedici è un filosofo, ideatore con Maura Gancitano di quella realtà di nome Tlön, che oltre a essere un progetto culturale è anche una casa editrice, una libreria teatro a Roma con tanto di pellegrini, e una fucina di idee, incontri, una comunità. È, a dirla breve, una delle realtà culturali più interessanti degli ultimi anni.
Ha pubblicato, con Maura, Liberati della brava bambina (Harper Collins), La Società della Performance (Tlön Edizioni), Lezioni di Meraviglia (Tlön Edizioni), Tu non sei Dio (Tlön Edizioni); e, da solo, il Codice del Mito (Mursia).
Ho scambiato due chiacchiere con Andrea su di lui, su alcuni Miti del suo Il Codice del Mito, sulla scrittura, internet, sul filosofo innamorato, sulle questioni di genere e il recente Contro-festival della Bellezza tenutosi a Verona.
La Vocazione
Io ho avuto un professore di filosofia, alle superiori, che era il traduttore di Cioran. Avevo cominciato a leggere per conto mio La Tentazione di Esistere e ho visto che la traduzione era di Lauro Colasanti. Ho pensato “ma è assurdo che sia davvero lui”. Sono andato dal mio professore e ho detto: “Ma è lei?”, e mi ha risposto “Sì, sì, sono io sono io”.
È nata lì.
Avevo quattordici, quindici anni quando cominciai a leggere Cioran. Partii da Nietzsche, in realtà, e poi passai a Cioran. È come una sorta di gara di resistenza: se sopravvivi a Nietzsche e Cioran a quell’età, puoi fare filosofia. Che poi è anche altro, non è solo quella roba là. Però quella roba là è il motivo per cui tanta gente s’iscrive a filosofia, poi spesso si scorda perché si era iscritta, perché ti riempiono di mille altre cose che meno apertamente parlano di te, anche se poi parlano di te comunque. E quindi l’ho scoperta così, l’ho scoperta con Nietzsche prima, e poi il vero grande anelito d’amore è nato con Cioran e con questo professore che appunto non faceva nulla per raccontare di sé ma era semplicemente uno strumento per fare filosofia, non si vantava minimamente, non diceva nulla dei propri studi e lavori, anzi era abbastanza odiato perché non metteva mai voti alti. Si teneva al massimo sul sette. Poi in realtà non la presi da subito la via della filosofia: ho fatto un anno di altro all’università, Letteratura, Musica e Spettacolo o una cosa del genere. Poi però in soli tre anni mi sono laureato in filosofia. Mi sono laureato in tre anni perché era quello che volevo davvero fare. In un anno di Letteratura, Musica e Spettacolo non avevo dato un esame, invece a filosofia in tre anni ho fatto quello che si farebbe in cinque. Perché era la cosa che proprio era mia, che sentivo mia, che mi dava senso.
Ritengo che la filosofia sia la mia vocazione. O per essere più precisi è lo studio e la pratica della filosofia insieme ad altre persone. Per esempio: Maura è più brava di me a spiegare le cose, come il referendum, e quello è proprio indubitabile perché in quella cosa è perfetta, quello è il suo talento nel fare filosofia. Non c’è un solo modo di fare filosofia. Quello che piace a me, a parte lo studio, che ci accumuna, è il modo di Socrate e di Diogene il cinico, che è il mio filosofo preferito: cioè di rompere i coglioni. Una filosofia che proprio debba pungolare, che debba essere torpedine. Questo è il mio modo di fare filosofia, ispirato a quelle persone. Questa è la mia vocazione.

De André: c’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore
Io mi guardo sempre indietro con estrema tenerezza. Ma anche cinque minuti fa. Mi vedo tenerissimo e dico: guarda ‘sto scemo. E non che adesso non pensi di essere scemo, però ieri ero più scemo di oggi, e quindi sono sempre molto contento quando mi accorgo di aver avuto torto, perché è un’occasione, è un’opportunità per dire “Ok, adesso ho imparato un’altra cosa nuova”.
Io m’ innamoro di tutto. Maura mi prende in giro perché ogni volta che leggo un libro dico “Ma questo è il libro più bello della mia vita!”, e ho questa sensazione chiara che ci sia una linea tra tutti i libri che ho letto, come se fossero i personaggi di Dragon Ball o dei Cavalieri dello Zodiaco, dove il boss è sempre più forte man mano che vai avanti nella storia. E questa è la sensazione chiara, cioè che non rinnego nulla delle cose che ho fatto e delle cose che mi hanno appassionato. Ci sono più che altro delle cose che tornano ciclicamente, come lo studio di Jung e Platone (che non mi abbandona mai), lo studio di Nietzsche, Gurdjieff. C’è una frase di De André che dice: “C’è ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore”, che ha a che fare anche col suo aver sentito e scoperto delle idee forti all’inizio, e poi aver cercato di spiegarle. Io ho questa sensazione, come direbbe Gurdjieff, di aver avuto un centro magnetico forte, e la fortuna di aver avuto a che fare con delle cose importanti, e poi di aver passato e di star passando il resto del tempo a cercare di capirle. Mi guardo indietro e dico com’ero tenero, però insieme a com’ero tenero penso anche a com’ero fortunato. Ma non per merito eh, ma proprio come sono stato fortunato che mi è capitata quella cosa lì, che ho incontrato quella persona là che ha cambiato la mia vita. Come dice Borges: “Sono fiero dei libri letti e non dei libri scritti.” Io sono fiero delle persone che ho incontrato e non dei discorsi che ho fatto. Ma persone intendo sia come ispirazioni, sia persone che mi hanno permesso di fare dei discorsi. Perché poi penso (almeno per me funziona così), che il discorso cambia con l’interlocutore, la profondità di quello che dico, le idee che vengono lo fanno in funzione della persona che ho davanti, come se fosse un altro magnete a sua volta, e insieme riusciamo a potenziare, amplificare il potere attrattivo, e a far scendere le idee migliori.
La Meraviglia dell’Imperfezione
Nel mito della Biga Alata, Socrate paragona l’anima degli uomini e degli dei a una coppia di cavalli alati e ad un’auriga. Immagina gli dei dotati di due cavalli bianchi: sono costretti alla perfezione. Gli umani no. Gli umani possono anelare alla perfezione ma non ci arriveranno mai. Tra gli umani e gli dei ci sono i demoni, c’è Eros, che è un intermediario. È Platone a re-inventarlo, a trasformarlo in intermediario. Anticamente, Eros era il Re degli Dei, il primo degli Dei, soltanto poi diventa questa sorta di intermediario che permette agli umani di perfezionarsi, di proseguire nella strada della filosofia, perché la filosofia è erotica.
Un dio con due cavalli bianchi non può che fare le cose giuste, non può mai davvero scegliere. Gli esseri umani avendo un cavallo nero hanno la possibilità di battere strade che gli dei non possono. Gli dei sono athanatos, sono privi di morte, e se tu sei privo di morte non c’è nessuna scelta che puoi fare, tutto può accadere mille volte. Per esempio: devo fare il panettiere o il tennista? Scegli. È un bivio nella tua vita e devi prendere una delle due strade. E prendendo una delle due strade stai cambiando l’ordine delle cose. Se invece tu sei un Dio puoi dire “ora faccio il panettiere e tra quattro milioni di anni farò il tennista!” È athanathos. L’idea di fondo qual è? Quella di imparare a riconoscere la meraviglia dell’errore, la meraviglia dell’imperfezione, quanto sia foriera di stupore. Perché l’essere umano in una storiella ebraica è colui che viene amato dal Dio e riverito dagli angeli? Perché è colui che riesce a dare il nome alle cose. Dare il nome alle cose significa riuscire a metterle in una cornice momentanea. Riuscire a compiere un atto estemporaneo che riesce a far emergere dalla sostanza una forma che è perfetta per quel contenuto lì. E quindi avere un cavallo nero, è vero può significare essere pigri, essere viziosi, disperdere le energie. Però significa anche avere delle opportunità per sbagliare strada. Per divertirsi. Gli dei non si possono divertire. Gli dei posso andare soltanto sui binari della perfezione. Divertirsi etimologicamente significa divergere, e quindi deviare dalla linea, come delirare, no? Gli umani possono delirare, gli dei non possono delirare. Soltanto se ti diverti e deliri riesci a beccare delle strade che sono precluse agli dei.

EROSIVE, Il contro-festival della Bellezza – Una questione femminile, ma non solo
A Verona è stato bello.
Tutto nacque dal fatto che io contattai Michela Murgia:
≪ Senti, dobbiamo fare un contro-festival della bellezza, lo facciamo a Roma, al Monk, il 27. ≫
≪ Guarda, in realtà lo stiamo già facendo a Verona. ≫
≪ Ah. Allora facciamo così: noi evitiamo di fare il nostro e concentriamo le energie tutte quante a Verona. ≫
≪ Andata. ≫
Siamo partiti. Io ho fatto lo spettatore e Maura ha fatto da relatrice. È stato fortissimo. Il Festival della Bellezza è un festival, come moltissimi altri, in cui c’è una disparità di genere. Semplicemente le donne non se le filano. Dicono che le donne non sono in grado di parlare, non sono in grado di tenere un palco, non sono in grado di avere il carisma per affascinare il pubblico, oppure banalmente non entrano nemmeno nei loro pensieri o solo su richiesta, tipo “Ah sì, le donne,”. E invece quella piazza è stata forte, è stata una piazza che ha evidentemente spostato gli equilibri. Lo vedo anche nelle varie cose che stiamo facendo, nei gruppi con cui lavoriamo, non c’è ancora tanta consapevolezza, ma c’è timore, che per certi versi è l’inizio della consapevolezza. In giro stanno cominciando a dire “Forse dobbiamo chiamare più donne, che poi qua ci fanno storie” anche se per il momento non hanno ancora capito bene il perché. Tanti uomini non hanno capito perché, (anche tante donne, ma soprattutto tanti uomini) non hanno capito che stanno facendo un’ingiustizia vera, pericolosa, e che se tu sei un uomo e partecipi e a un evento culturale e non ti preoccupi di quante donne ci sono tra le relatrici, allora sei ingiusto. Erosive è stato forte, perché ha portato una presa di consapevolezza da parte delle persone. Era un pubblico che ascoltava delle donne che si erano fatte da sole il palco, che si erano prese la parola, che non avevano aspettato che qualcuno gliela cedesse, e che avevano detto “Voi non potete più permettervi di tenerci fuori dal gioco”, non è che stavano dicendo noi dobbiamo essere i capi ma “giochiamo tutti”.

Guardare da spettatore, (mi capita poco perché o sto dietro alle quinte o sto sul palco), e stare lì in mezzo alle persone è stato fortissimo, è stato veramente emozionante, commovente in tanti punti. Esilarante in altri, ma soprattutto commovente. C’è un punto in cui gli uomini, se si impegnano poco poco, riescono a sentire quanto è stata profonda l’ingiustizia dell’esclusione, e non possono che essere alleati, e quindi accettare l’idea che chi ha un privilegio (come me, come uomini che parlano pubblicamente) ha il dovere di esprimere il proprio dissenso, di passare il microfono e di evidenziare il problema, altrimenti è connivenza.
Quasi tutti gli interventi e anche la linea di comunicazione del festival era “il maschio è il soggetto della riflessione, la femmina è l’oggetto della riflessione” e questo significa svilire metà degli esseri umani. Galimberti, Baricco, Recalcati, Cacciari, (c’erano tantissime persone sui cui libri io ho studiato e studierò tutt’ora, perché sono bravi,) devono prendersi la responsabilità di riconoscere la battaglia del momento. Per quanto tu possa aver fatto delle grandi riflessioni sul senso della vita, se poi non senti lo spirito del tempo, e non riesci a rispondere usando il tuo potere per generare giustizia, io non dico che i tuoi studi perdano di valore, perché i tuoi studi restano immutati, le opere di Cacciari restano tali (l’ultimo libro di Cacciari che è uscito l’altro giorno me lo sono comprato subito e l’ho già letto), il punto è che non sei più un interlocutore credibile dal punto di vista dell’analisi dei problemi sociali. Puoi parlare della filologia di un testo platonico, puoi fare l’analisi dei Minima Moralia di Adorno, però di questo tempo non ne sai abbastanza per pretendere di avere un editoriale al posto di una persona che invece sta incarnando, sta comprendendo, sta analizzando, e sta spingendo avanti lo spirito di questo tempo.
Il Mito di Toth, l’invenzione della Scrittura e Internet: mathema, conoscenza; pharmakon, veleno
Noi ormai siamo nella post-scrittura, non capiamo la potenza di quello che ha fatto Platone. Possiamo capire quanto era potente se pensiamo a internet, era come se Platone avesse detto (di internet): “È meglio la realtà, ma visto che il mondo sta traslocando online io non posso evitare di fare le cose più fighe possibili su internet, non posso evitare di fare un grande evento online, non posso evitare di avere un profilo o una pagina social”. Uso internet ma nella mia pagina spiego quanto fanno male tutti questi strumenti, e non perdo l’occasione per creare un’opera d’arte. Al tempo era esattamente così, solo che in ballo c’erano la scrittura e l’oralità. C’era la sensazione che la scrittura fosse causa e conseguenza di una serie di cambiamenti che erano avvenuti in quel periodo: l’intensificarsi dei commerci, il crollo di un certo tipo di credenze religiose, la fine di Omero, e quindi la morte degli dei. Socrate incarna proprio questo. È l’ultimo ad avere una presenza dentro di sé. Addirittura viene accusato di non credere agli dei, lui che aveva un demone dentro di sé, e infatti lui risponde, “Ma come? Se ho un demone dentro, uno di quei demoni che sono gli intermediari, è evidente che credo negli dei. Siete voi che non siete retti, siete empi”. L’oralità era uno di quei mezzi con cui si tramandava il potere e si tramandava il sapere, in un senso di relazione diretta con l’ignoto.
La scrittura è l’inizio della mediazione. È un processo che è iniziato 2600 anni fa. C’è un bel libro di Julian Jaynes, Il Crollo della Mente Bicamerale, che tira fuori delle belle idee su questo e di cui parlo nel Codice del Mito. Occorre cercare di rendersi conto che qualcosa abbiamo perso qualcosa, (come racconta Pasolini nei suoi film, per esempio in Medea quando fa la differenza tra i due centauri), e questo qualcosa che abbiamo perso è il rapporto diretto con il divino, che via via si è andato allentando. Sono andati infilandosi intermediari. Non necessariamente sacerdoti eh, ma intermediari della scrittura, dove quindi è più difficile accedere a quegli stati là. La scrittura non risponde. Quando tu studi su un libro non stai parlando davvero con qualcuno, quella cosa non può risponderti. Una delle critiche che fa Platone alla scrittura è proprio questa, il fatto che la scrittura è muta, ti dice una cosa ma poi tu la confuti e quella non può farti una contro-confutazione. È per questo che Platone nella Settima Lettera dice: “Le cose più importanti che ho da dire non le posso scrivere, non le trovate nei miei libri”. E questo fa impazzire un sacco di platonisti, che dicono “Ammazza, io ho passato la vita a studiare su di te e tu le cose più importanti non me le hai dette?” “No, perché non si possono scrivere. Capito?” Perché non sono trasmissibili con un intermediario. Ma visto che l’intermediario è ineludibile, dobbiamo imparare a sviluppare delle strategie per rimandare a quella condizione. La scrittura è una di queste. La scrittura fatta in un certo modo, come i dialoghi di Platone, sono dei rimandi ad altri stati di coscienza, per questo inserisce il mito. Il mito è come se fosse una sorta di motore di quello stato di coscienza, un motore che permette la comprensione delle intuizioni che ti ha buttato lì, e quindi solo se sei predisposto ti si aprono come se fossero dei fiori che si schiudono.

Oggi siamo chiamati a fare la stessa cosa con la tecnologia. Capire quale pericolo incarna la tecnologia ma non scartarla in toto. Occorre fare capolavori, attraverso la tecnologia, con la consapevolezza che devono comunque rimandare a un’alterità che è prima della scrittura, che l’oralità non era ma richiamava: che è appunto la presenza, l’essere presenti nel senso di ricordo di sé, cioè coabitare uno stato non ordinario di coscienza.
Il Mito come amuleto, Il Mito come talismano
Il mito è una forma che ha il potere di attrarre contenuti di livello superiore. È per questo che i greci erano abili a raccontare più miti anche in disaccordo tra loro, sulla stessa persona, sullo stesso dio. Zeus può aver avuto mille esperienze o averne avute poche, Era può essere stata tutto sommato fedele oppure infedele, Elena aveva ragione o non aveva ragione, Elena finisce con Achille nei campi Elisi oppure no. Perché il mito ha la funzione di accompagnare da un’altra parte.
La differenza tra l’amuleto e il talismano è importante. L’amuleto è a-monito, cioè ha la funzione di tenere lontano il male, è apotropaico in questo senso; mentre invece il talismano attira. Il mito ha entrambe le funzioni. È amuleto perché allontana la semplificazione, ti ricorda che in realtà le cose sono sempre più complicate di così. Il mito è sempre una sfida a potenziare l’immaginario: sei sicuro che vuoi finire qua? Il mito è talismano perché ti attira verso stati non ordinari, ti attira verso la comprensione, verso l’interno di te, ti dà l’idea che passando da dentro tu possa accedere a uno stadio o stato in cui, come diceva Salustio, queste cose non avvennero mai ma sono sempre.
È importante capirlo. Significa che quella roba non è accaduta davvero, non è che in quel posto in quell’ora è accaduto quel mito; ma è avvenuto sempre perché è nella rete sottostante, nella traccia, è nel senso sotterraneo alle cose che accadono. Questo è forte, perché dà proprio il senso per cui l’inventare miti è uno dei compiti del filosofo.

Oggi viviamo in un tempo smitizzato e quindi la filosofia deve avere il coraggio di inventare nuovi miti, di generare senso attraverso i miti. È un gran compito. Se la filosofia si limita ad analizzare il reale siamo finiti. Il reale si reinventa costantemente. Non facciamo in tempo a diventare filosofi del reale che il reale è già diventato passato. L’unica strada per la filosofia è quella di continuare a formarsi, di inventare nuovi miti adatti per le persone di oggi, adatti a vivere attraverso una nuova prospettiva. Joseph Campbell in Guarire con i Miti racconta di come il mito non abbia soltanto una funzione sociale, ma anche una funzione psicologica, perché ti permette non solo di capire qual è il ruolo della tua generazione e della tua comunità, ma il tuo specifico ruolo all’interno del grande ingranaggio del mondo.
Sulla Gioventù, sulle Piste di Atterraggio, sul Filosofo Innamorato
Io sono molto fiducioso. C’è una bellissima risposta da parte dei più giovani. Il problema è che sono incomprensibili per i più vecchi, ed è una cosa che è sempre successa nel corso della storia: che i vecchi si lamentassero di quanto i giovani fossero di facili costumi, abbandonassero il rispetto e robe del genere; ma stavolta i vecchi hanno ragione. Questa volta i vecchi non hanno proprio la struttura psichica per capire i giovani. Nei giovani vedo un’alta capacità di adattarsi alle cose, un’alta capacità di vedere il mondo, un altro modo di abitarlo, e penso che la generazione dai venticinque ai quarant’anni abbia il dovere di fare da ponte tra un’umanità che è finita e ha quasi smesso di esistere – siamo agli ultimi esemplari – e un’umanità che invece è nata. Se si vuole salvare qualcosa della cultura per come l’abbiamo intesa negli ultimi cent’anni, bisogna salvarla ora, perché questi nuovi ragazzi hanno teste diverse, passioni diverse, bisogni diversi, hanno proprio un approccio alla vita completamente diverso. Tutte le teorie del passato non funzionano più, tutte le teorie sull’essere umano non funzionano più perché siamo giunti a un altro stato attuale. Funzioneranno quelle psicologie e quelle filosofie che parleranno del futuro possibile dell’uomo, inteso come sviluppo interiore dell’essere umano. Quello sarà interessante. Per esempio gli studi di tanta spiritualità vanno già in questa direzione. Una visione della psicologia come riduzione alla normalità, come accade talvolta in ambito psicologico, non ha più senso oggi, perché è cambiato lo stesso concetto di normalità. Mentre una visone alta della psicologia come trasformazione dell’essere umano in übermenscht, in oltre-uomo, in senso Nietzschiano di nuovo, quello sarà importante. Vedo veramente i ragazzi che hanno una capacità di spaziare immensa, di incuriosirsi, e che appena tu vai lì e gli fai capire che li ascolti e che ti interessano, è fatta, puoi passargli qualunque concetto straordinario. Il fatto è che devi farli sentire ascoltati. Per questo quando andiamo nelle scuole io e Maura parliamo di musica e ascoltiamo la musica che c’è in classifica adesso, andiamo a vedere quali sono i più ascoltati su Spotify. Passiamo da Tha Supreme a la Machete Crew, Salmo, la musica trap. Se tu entri in una classe e dici quello che fate voi sono tutte cazzate, ascoltate Platone, Pavese, o chi vi pare; avete perso, non passerà mai nulla, nessun concetto.
Non è che tu ricevi una conoscenza perché qualcuno te l’ha detta bene e allora tu copi la formula; ma è a forza di una comunanza di vita, è stando vicino a qualcuno che accedi allo stesso stato.
Andrea Colamedici
Se invece vai lì e fai capire loro che abbiamo un terreno in comune, che parte da qui, da Milano di Tha Supreme… Ho fatto una lezione su Platone partendo da Sfera Ebbasta. È ovvio che lo stesso pregiudizio che c’è oggi su Sfera Ebbasta è lo stesso – e questa sembra una bestemmia – che c’era nei confronti di Eric Clapton e Jim Morrison e affini; ciò non significa difendere l’utilizzo delle sostanze stupefacenti, ma significa capire che c’è un’esigenza di ribellione che è sistematica, che è perenne. Dietro spesso c’è un disagio urlato che bisogna imparare ad ascoltare. Appassionarsi dei ragazzi è la maniera migliore per appassionarli. E per appassionarti devi conoscerli. Per conoscerli devi conoscere quelle che amano. Per conoscere quello che amano devi metterti d’impegno e devi avvicinarti a cose che magari per te sono lontane. E credo che un divulgatore o un filosofo, o un filosofo divulgatore sicuramente, o una filosofa divulgatrice, ha il dovere di conoscere i bisogni e gli interessi delle persone a cui fa riferimento, perché altrimenti ha soltanto la presunzione di campare dall’alto qualcosa. Se hai un aereo devi osservare dove atterri. Com’è la pista d’atterraggio? Se hai qualcosa da portare devi vedere come sono le mani, devi preoccuparti che la forma che porti sia adattata alla forma che accoglie.

Tre regole per essere un pessimo filosofo
- Volere infilare di forza delle idee giuste negli altri. Aristotele ha detto questo e Aristotele ha ragione, Ipse dixit e quindi stacce.
- Rifiutare tutto quello che non ha scritto sopra filosofia. Ed è una cosa che fanno tanti filosofi, che significa anche non leggere quei libri che non sono per tre quarti bibliografia, come si usa in filosofia contemporanea, che è quest’ansia costante di dimostrare che hai studiato filosofia, quindi devi far vedere che “io non sto mica pensando qualcosa di mio totalmente mio, ma Hegel e ho letto il libro su quello che ha scritto il libro su quello che ha scritto il libro. Ansia costante di non uscire al di fuori del proprio schema.
- Non essere innamorato. Come l’educatore, l’insegnante. Lascia perdere. Non farlo questo lavoro. Ti piace studiare? Studia. Ti piace approfondire una materia, la storia? Studiala. Ma se non sei innamorato, lascia perdere. Un pessimo filosofo è sicuramente uno non innamorato.

In copertina Nietzsche e Borges, della serie “La Condizione Umana” di Andrea Pizzari.