Un attore bravo riesce a cambiare lo spazio –
Ma come? Cos’è il teatro e l’arte dell’attore? C’è differenza?

Intervista a Rui Albert Padul
Rui Albert Padul da quando ha 22 anni è un attore che fa parte del LabPerm di Domenico Castaldo, a Torino. È nato a Dolo nel 1988 da genitori filippini (René e Corazón), ed è cresciuto a Milano, in una casa situata tra una chiesa e un teatro che in qualche modo presagivano quella che sarebbe stata una condizione fondamentale della sua strada e della sua ricerca: uno spazio di mezzo tra il sacro e il teatro.
Da quando ha terminato le superiori si è dato allo studio e alla pratica dell’arte dell’attore, in una ricerca dedita all’esplorazione di quelle che sono le potenzialità dell’essere umano, e dell’incontro.
Abbiamo fatto due chiacchiere con lui cercando di individuare le chiavi del suo lavoro, del mestiere dell’attore, su di sé, sul corpo, sulla voce e il canto, sull’ambiente. E abbiamo provato a capire tante cose percorrendo, come lui, la strada alla ricerca di quella che per ogni artista è la propria pepita d’oro.
1. Riusciresti a descrivermi il lavoro che fate al LabPerm, in meno parole possibili? Come se parlassi a qualcuno che non ne sa nulla.
Già se vai a scandagliare il nome. LabPerm: sta per “Laboratorio Permanente di Ricerca sull’Arte dell’Attore”. E questo è il lavoro che facciamo. Non è sul teatro, è sull’arte dell’attore. Lavoriamo come se fossimo all’interno di una bottega artigiana.
È un lavoro quotidiano, in cui ogni giorno cerchiamo di affinare gli strumenti necessari ad approfondire l’arte dell’attore. Quindi l’essere umano in tutte le sue potenzialità, di relazione con sé stesso, gli altri, e magari anche con qualcosa che è anche oltre. Quindi lo strumento principale su cui focalizziamo il nostro studio è il corpo. Partiamo da là, sempre. Ci alleniamo.
Poi pratichiamo l’arte della recitazione, l’arte dell’attore in tutte le sue forme. E poi studiamo, anche intellettualmente. Cerchiamo di confrontarci il più possibile con i saperi che vanno oltre al nostro campo, come la filosofia, tutte le pratiche spirituali, la medicina, l’antropologia, la fisica quantistica. Tutto ha a che fare.
2. Come stai? Come stai vivendo questi giorni?
Bene. Sto molto bene. Seduto, davanti ho un computer, un bicchiere di vino. Se penso alla vita in generale mi sento molto calmo. Sto molto bene, perché tutto questo ambaradam non ha toccato quasi per niente quello che facevo.
Ho diminuito solo i vizi. Faccio comunque il mio mestiere e mi dedico di più a cose come suonare. In verità è uno stato di grazia, perché c’è molta calma, silenzio.
Ho a disposizione un tempo vero, non dobbiamo correre dietro a niente e nessuno, è proprio un tempo di studio come non ne avevo da tanto. È un momento di studio profondo, ognuno di noi (del LabPerm) si sta prendendo il tempo e la cura necessari per approfondire il proprio percorso, mettendosi di fronte a i propri blocchi e cercando di lavorarci.
3. Com’è la tua giornata tipo in questo periodo?
La mia giornata inizia dalla sera prima. Perché inizio a pensare alla giornata successiva cercando di curare anche il riposo. Sempre più mi sto rendendo conto che con il giusto riposo poi la giornata va bene.
Al mattino mi sveglio verso le 8, 8 e mezza, poi doccia, colazione, e per le dieci tendo a iniziare la mia giornata lavorativa. Cerco di mantenere questa costanza dal lunedì al venerdì/sabato, cerco di mantenere questa disciplina sei giorni su sette, ecco. Dalle 10 comincio a lavorare.
La prima fase consiste nella preparazione di corpo e mente. Stiramenti, allungamenti, e quando sono pronto inizio con un esercizio che fa parte della pratica quotidiana del Laboratorio Permanente, è un esercizio di stiramenti che di solito si fa in gruppo ma di questi tempi faccio da solo, è un esercizio di nome “motions”, ed è una sequenza di stiramenti molto lenti, che dura in tutto una quarantina di minuti.
Dopo quello inizia tutta la parte di studio sul materiale di ricerca su cui sto lavorando, e questo va avanti fino alle 17 o un po’ meno. Alla fine della giornata lavorativa mi dedico al “training”: un allenamento a corpo libero molto dinamico che consiste nel “danzare”, seguendo una struttura, il proprio flusso di impulsi, portandolo nello spazio senza fare rumore coi piedi e con il fiato.
In questo periodo stiamo lavorando su due progetti: un’azione individuale e un’azione di gruppo che fa parte della ricerca comune. Tendenzialmente cerco di fare un check delle cose avvenute durante il processo di lavoro. A volte mi dedico alle cose più d’ufficio, essendo una compagnia indipendente abbiamo anche l’altra parte, quella burocratica amministrativa, da fare, e se non lo facciamo noi non lo fa nessuno. Poi c’è da far la spesa e poi cucino.
La sera – io vivo con altre persone – a cena sto con loro, o mi guardo un film. Ultimamente sto prendendo la cosa di leggere ad alta voce. Adesso sto leggendo varie cose, come un libro di Alfredo Rienzi, che è un poeta contemporaneo.
Poi per questo periodo di quarantena sto registrando ogni sera una favola di Rodari. Ne registro una ogni sera e la mando a un paio di persone, niente di pubblico. Così continuo ad allenarmi nella lettura. Pur essendo un attore sono uno che parla molto molto poco, è la cosa per cui ho più difficoltà. Questa è la mia giornata.

4. Se il teatro non fosse mai esistito che mestiere faresti?
Il cantante. Che poi è quello che faccio. Poi se mi dici “se non fosse esistita l’arte in generale” allora avrei fatto qualcosa legato alla matematica, oppure la fisica, anche se facevo schifo a scuola.
Mi piacerebbe fare fisica con la testa che ho adesso, ma la testa che ho adesso è il frutto della mia esperienza col teatro. Quindi forse farei l’artigiano, un costruttore di cose in legno di tutte le tipologie.
5. Come hai scoperto il Teatro?
A caso. Prima ho scoperto la recitazione. Nel senso: dentro di me c’era voglia di cercare come un attore. Non mi interessava il teatro, mi interessava la recitazione, il mestiere dell’attore. Però era totalmente intuitiva la cosa, non andavo a teatro e prima di iniziare a studiarlo non ci avevo a che fare.
6. Questo bisogno di cercare come un attore quando è comparso?
Quando ho iniziato a chiedermi seriamente cosa volessi fare da grande. Dopo le superiori mi facevo questa domanda. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto provare questa cosa qua, era solo uno stimolo di curiosità, niente di più, non avrei mai pensato che sarebbe diventata la mia strada. Allora mi sono iscritto all’Accademia dello Spettacolo, a Milano. (ce n’è una anche a Torino ma non c’entra niente).
7. All’Accademia dello Spettacolo facevi un teatro simile a quello che pratichi qui a Torino, con il LabPerm?
È un tipo di teatro abbastanza simile. L’imprinting è simile, anche se era meno approfondito, meno specifico. Era una scuola e quindi aveva mille declinazioni. Però, diciamo che l’etica era simile a quella del LabPerm. Una grande umanità, la ricerca sull’essere umano e le sue potenzialità. Tutto girava attorno a questo.

8. Quando hai capito che l’arte dell’attore è la tua strada? Che sei passato dalla curiosità al dire: questa è la mia.
Non è mai successo. Uno cammina, cammina, cammina e poi continua a camminare. Continui ad andare. Possono esserci degli ostacoli, dei cambi di direzione, però la strada è sempre quella. Ogni passo è la tua strada. La decidi e anche no. La percorri e basta.
Sono stato allievo due anni, e poi sono stato assistente a tutti i corsi. Se c’era bisogno di condurre lezioni lo facevo, se c’era bisogno di fare dimostrazioni. Ero una figura a disposizione dell’insegnante.
9. Quindi tu insegnavi appena hai finito l’accademia? Com’è stato vivere questo cambio?
Interessante. Forte. A volte mi sono ritrovato con classi di persone molto più grandi di me. Quello è stato un bell’esercizio. Avere un ruolo del genere e riuscire a farlo riconoscere da persone che hanno trenta quarant’anni più di te non è stato facile. Bisogna capire che quella gente si trovava un ragazzino che diceva loro cosa fare, quando farlo e come è meglio farlo.
10. E poi come sei arrivato a Torino, al LabPerm?
Tramite l’insegnante di recitazione con cui lavoravo in accademia. Ai tempi c’era l’idea di creare una compagnia. Ci sono state quelle congiunzioni astrali dove tutto un gruppo di persone si trova perché deve trovarsi, e quindi andava avanti come un toro.
C’era il mio insegnante di recitazione che tutte le mattine seguiva un gruppo di ricerca di Milano, che si chiamava “Teatro la Madrugada”, e lui andava ad allenarsi tutte le mattine con loro. E un giorno tornò a scuola e mi disse che quella mattina ci fu, al posto dell’allenamento, uno scambio di lavoro con un gruppo di Torino e quel gruppo era quello di Domenico.
Mi disse che a intuito poteva interessarmi molto come lavoro. E così mi ha incuriosito. Per caso andai a vedere il sito del LabPerm e vidi che di lì a poco ci sarebbe stato un seminario a Torino. E quindi mi sono iscritto. Avevo 22 anni quando mi sono trasferito a Torino.
11. Da quel momento ti sei unito subito alla compagnia di Domenico?
No. Era per tastare il terreno. Ho rubato al seminario quello che dovevo rubare e sono andato avanti. Quell’anno è fallita l’Accademia, e il mio ciclo con la scuola era chiaro che stava finendo. Era il momento di scegliere.
Se fare questa compagnia con il mio insegnante e gli altri allievi e stare a Milano, se seguire l’altra compagnia di ricerca di Milano, e poi c’era un altro gruppo che stava a Valencia. Infine c’era l’idea di provare a entrare nel Laboratorio Permanente, a Torino.
Allora ho scritto a Domenico e mi ha invitato a un altro seminario residenziale. Lì abbiamo parlato meglio di questa cosa. E ci siamo sentiti poco, nei mesi ci saranno stati tre contatti. Non sono molto loquace. Contatto, risposta, punto. Il primo seminario è stato a Marzo, il secondo a luglio, e poi ci siamo visti a Ottobre. Alla fine mi sono trasferito.

12. Hai mai pensato di cambiare compagnia?
È un pensiero. Un pensiero. Poi, appunto, i pensieri passano. Non è per niente esaurita la cosa con il LabPerm. Vai a una fonte cerchi, cerchi, cerchi, poi ad un certo punto ti accorgi che non ce n’è più. O diventi tu la fonte o vai a cercare altrove. Ma son più pensieri dettati da momenti di stanchezza, perché si tratta di un lavoro che richiede molto sia a livello fisico che mentale. Richiede molta disciplina.
13. Esiste l’ispirazione? Quello stato magico per cui le cose si fanno a un altro livello. E se esiste, come ti ci rapporti?
Sì, esiste. Io la intendo come uno stato di grazia, ed è la cosa che cerchiamo. Studia e studia e poi ti trovi di fronte a quella porta. Perché è proprio una porta. E non arriva a caso. È frutto di una pratica costante, di disciplina, di presenza piena. Secondo me un attore bravo è qualcuno che riesce a entrare in uno stato extra quotidiano.
14. Che intendi?
A teatro non c’è niente. Se lo guardi cinicamente ci sono, a seconda dei posti… mettiamo a San Pietro in Vincoli, siamo dentro a una chiesa con per terra un linoleum bruttissimo e nero, i muri bianchi e sporchi, le sedute laterali di legno brutte, dei fari attaccati a dei pali innocenti.
Un attore bravo riesce a cambiare lo spazio. Cambia l’aria, attorno a un attore bravo, che sa fare il suo mestiere. Questo intendo come stato di grazia, ecco. Quando una persona interpreta, adesso chiamiamolo “personaggio”, può essere o un cliché o una cosa totalmente vera, può essere una macchietta oppure no.
E quando è no, allora è qualcosa di speciale. A volte può capitare casualmente, invece un attore è cosciente di riuscire a evocarlo quando vuole. Diventa un mago. Riesce a entrare in uno stato di verità assoluta.

15. Ti riesce?
A volte. È un percorso crudelissimo. Ti prendi un sacco di murate in faccia. Più pensiero ci metti e meno funziona. Se inizi a pensare “adesso faccio questo, questo, quest’altro” non funzionerà mai. Sono azioni. Azioni pure.
16. Quando lavori sulle tue azioni o quelle di gruppo, da dove prendi il materiale?
Nell’ultimo periodo il lavoro di gruppo stava vertendo su un repertorio di canti, totalmente senza parola, fatto solo di suoni emessi da noi cinque. Quindi non ho nessun appiglio. Non ci sono idee. Sono dei flussi emotivi che devi riuscire a strutturare. Magari mentre canti fai delle cose che poi ti ricordano altre cose, mentre le fai. Magari c’è questo canto dove sei in quella posizione nello spazio, con un tuo compagno in un certo punto, un altro compagno di fronte a te, e tu sei in centro alla stanza, e c’è questo canto, e sei lì, e hai la precisa sensazione di quella volta che avevi cinque anni ed eri con tuo nonno al tuo fianco, al mare.
E allora lo rifai. Cerchi di riproporre quella cosa. E qua inizia la battaglia. Quella feroce con la testa. Perché poi inizi a intellettualizzare, e non funziona più. È la che diventa importante il lavoro sul corpo. Un lavoro molto molto preciso sulle tue tensioni fisiche può ricondurre in modo molto accurato a quelle che noi chiamiamo “azioni fisiche”.
C’è molta più possibilità di rievocare qualcosa se ripropongo con un preciso tempo e con un preciso ritmo un gesto specifico, e allora provo a rifarlo con lo stesso tempo e lo stesso ritmo, con le stesse tensioni fisiche, ed è più facile che ti ritorni persino la stessa emozione se vai a riproporre quel gesto in quel modo. Ma senza pensarci perché anche il pensiero è una tensione, che va ad influire anche a livello muscolare. Se pensi c’è anche il fatto di pensare stesso, e non c’entra con quell’azione originaria in sé.
Questo è un modo per trovare materiali, fisicamente. Poi quel ricordo può farti venire in mente uno scritto, o a quel punto scrivi tu qualcosa, o potrebbe essere che quella cosa che hai vissuto la puoi trovare scritta in modo bellissimo da qualcun altro. Quindi c’è una parte di studio, di ricerca di una corrispondenza, qualcosa che possa rievocarti quella faccenda originaria. Noi cerchiamo così. Poi magari ci sono delle tematiche grandi prefissate, quindi si cerca di andare in quella direzione. Ma tutto è molto aperto alle reazioni che avvengono durante il lavoro. Anche i canti, le melodie stesse. Noi non siamo musicisti, seppur cantiamo sempre.
Negli ultimi anni il canto è la nostra punta di ricerca. Anche le melodie non le “pensiamo”, anche quelle sono “azioni”. Magari qualcuno ha una proposta e la cantiamo tutti, in un altro nasce un’altra melodia che corrisponde a un suo stato emotivo scaturito dalla proposta della prima persona, e quello diventa il suo sviluppo. Quindi melodia è come se fosse anche il testo, la storia, per la persona che la canta.
17. Come fai a far convivere la tua vita quotidiana con l’essere un artista?
Non creando dicotomie. Io non vedo differenze. Quello che va al laboratorio e quello che va alle feste a casa di Marta sono sempre io. Non trovo difficoltà in questo, ecco.
18. Che cos’è per te il teatro?
È un incontro tra esseri umani. Il teatro è uno spazio fisico. Non c’è teatro se non c’è almeno un attore e uno spettatore. Tutto il resto può non esserci. Ma se non c’è questo incontro non c’è teatro. Anche durante le prove noi stessi siamo spettatori e attori di quello che facciamo. Quando provo da solo, quello non è teatro, solo prove. Già in due può capitare qualcosa. C’è un incontro.

19. Nella tua carriera da artista c’è qualcosa che ti ha cambiato, dove è accaduto qualcosa di particolare per te o significativo?
Tutti quei momenti di emergenza, fuori dal lavoro, in cui tutto il lavoro è emerso. Una volta, era fine estate, eravamo in ritiro in una casa in campagna e alla fine avevamo deciso di fare un evento pubblico, in cui presentavamo le canzoni che avevamo lavorato.
Per rappresentare queste canzoni avevamo deciso di fare una cena o un pranzo. Così abbiamo invitato le persone a venire in questo cascinale dove avrebbero fatto il pranzo o la cena e poi gli avremmo fatto sentire le nuove canzoni. Ma avevamo deciso di fare tutto in maniera seria, serissima. Dove facevamo tutto noi. Antipasto primo secondo contorno. Una cosa fatta per bene.
Il fatto è che avevamo i mezzi di una cucina normale, ed eravamo solo noi cinque, al massimo un paio di persone in più, e ne dovevamo sfamare quaranta. A un certo punto, ma tutti insieme, c’è stata quella cosa da branco, abbiamo sentito che c’era bisogno di dare quella svolta in più a tutto, e siamo entrati tutti in uno stato silenzioso. Zitti. Tutti a cucinare, fare. E ce l’abbiamo fatta. Però è stato interessante quel cambio di tutti noi contemporaneamente.
20. Una volta mi hai parlato che sei vissuto tra un Teatro e una Chiesa, giusto?
Ah, guarda, pensa te la fatalità. Io sono cresciuto a Milano in una casa che sta tra una chiesa e un teatro. Ed è la mia condizione attuale. Il campo in cui ci muoviamo è a cavallo tra la spiritualità e il teatro.
21. Ci torni mai alle Filippine?
Ci sono stato quest’anno. Dopo vent’anni che non ci andavo.
22. E questa tua origine ha influenzato il tuo lavoro?
Ci sono delle cose che non sai, però fai. Quelle sono le tue radici. Ma radici antiche. È capitato, nel lavoro che facciamo, di essere un’altra persona, con una netta percezione di qualcosa di molto antico, di tribale. Lavorando a volte entri in questi flussi, soprattutto cantando, che probabilmente da fuori possono essere chiamati di trance, e là ti entra un demonio dentro che non sai. A volte è capitato. A volte canti delle cose che ti evocano quella roba lì, e te la evoca tutte le volte in un certo contesto. Non ti so dire di più. Sono dei misteri.
23. Com’è quando preparate uno spettacolo e lavorate per conto vostro per tanto tempo e poi lo aprite al pubblico? Cosa cambia quando lo fate davanti alle persone?
Alcune cose cambiano. È una questione di equilibri e di forze. Più diventa solida da parte nostra la proposta e meno la presenza del pubblico influisce sul nostro fare. Dipende dal grado di preparazione a cui arriviamo quando apriamo. Influisce. È forte come cosa.
24. Con la L.U.P.A. vi aprite a persone che non sono strettamente del laboratorio. Com’è questo scambio, fare questa pedagogia del teatro a chi non lo conosce?
Lo trovo molto nutriente. Se lo studio è fondato sull’essere umano, avere a che fare con degli esseri umani è sempre stimolante, crea sempre possibilità nuove, a prescindere dal grado di preparazione. Poi sei comunque tu che guidi che ti metti in gioco. Le cose funzionano o non funzionano soprattutto per chi sta guidando. Metti alla prova il tuo grado di flessibilità. Che è fondamentale per tenere viva la creatività, la vitalità. È stato un passo necessario quello di creare la L.U.P.A. È il terzo anno che c’è, in modo sistematico.
25. Una domandina veloce su Armonie ai Confini dell’Ombra. Io l’ho visto e arrivano tante cose da un punto di vista emotivo ed esperienziale, che non sembrano parlare alla ragione ma ad altre parti di sé. Cosa esattamente stavate cercando di fare? Se esiste una risposta.
Silenzio. Silenzio interiore. Quando facciamo uno spettacolo non partiamo mai con un obbiettivo rivolto verso il pubblico. “Vogliamo che il pubblico senta questo, quello”, non partiamo mai da idee. Tutto parte da un bisogno nostro interno, e cioè di silenzio. Di quella direzione là. E magari anche le persone là fuori avevano bisogno di quello.
26. Come gestisci i fallimenti? Quando provi e non riesci, non riesci, non riesci.
Ci devi avere a che fare. Ricollegandoci all’immagine della strada, quando sulla tua strada ti si pone davanti l’ostacolo, l’ostacolo è la tua strada. Quindi ci lavori. Cerchi di comprenderlo, di capire come si muove, cerchi di vedere oltre all’ostacolo cosa si sta muovendo. Il rischio è anche quello di focalizzarsi su quello che non va, piuttosto di quello che sta andando.
Nel nostro lavoro è molto presente quella che chiamiamo la via negativa. Tutti noi ci troviamo di fronte a “no” costanti. Può essere molto frustrante a volte. Ma sono dei passi necessari, perché appunto, noi siamo come dei cercatori d’oro. E prima di trovare un granello d’oro, magari ci passi anche tutta la vita, c’è gente che non la trova mai, o trovi quella pepita dopo anni e anni e anni che scavi.
27. E qual è la tua pepita d’oro, per ora?
Non voglio pensarci. E se la trovassi non la direi. Alcune cose devono rimanere segrete.

28. Ci sono delle opere che hanno cambiato la tua visione delle cose, o la percezione della tua arte? Che ne so, un quadro, un film.
A me è molto servito vedere la radice di quella che è la nostra pratica, del nostro tipo di teatro. Che è il Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards, a Pontedera. Vedere soprattutto il lavoro di Thomas Richards mi è servito sotto molti aspetti. Poi la musica mi ha accompagnato e mi accompagna molto. È Il filo conduttore di tutta la mia vita. Adesso più fatta che ascoltata.
29. Dammi cinque regole per essere un pessimo attore.
- Fai quello che dici. Se il testo dice “io mangio una banana”, fai il gesto di mangiare una banana.
- Non ascoltare niente e nessuno, se non te stesso.
- Sii molto rumoroso.
- Se enfatizzi sarai intenso.
La quinta non mi viene. C’è già tanto nelle altre.
30. Tre nomi di attori o compagnie che ritieni interessanti e che dovremmo tenere d’occhio.
- Irene Serini. Un’attrice di Milano. Abracadabra è uno dei lavori più belli che ho visto ultimamente.
- Io non ho mai visto un lavoro di Peter Brook, e mi piacerebbe.
- Il Workcenter di Thomas Richards e Jerzi Grotowsky.
- Fabbrica dell’Esperienza, di Milano. Una scuola di teatro.
Contatti:
LabPerm sull’Arte dell’Attore
www.labperm.it
info@labperm.it
L.U.P.A. Libera Università sulla Persona in Armonia