A PARTIRE DA POESIE, DI IOSIF BRODSKIJ, ADELPHI, RISTAMPA 2020, PRIMA EDIZIONE ITALIANA 1986.
.

Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove
Onde grige di zinco vengono a due a due;
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida
che fra queste si arriccia, come un capello umido;
se mai s’arriccia. Anche puntando il gomito, la conchiglia
dell’orecchio non distingue in esse nessun ruglio,
ma sbattere di tele, di persiane, di mani,
bollitori su fornelli, al massimo strida di gabbiani. In questi paesi piatti quello che difende
dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede
più lontano. Soltanto per il suono lo spazio è ostacolo:
l’occhio non si lamenta per l’assenza di eco.
Problemi di alterità.
In Italia è difficile parlare di poesia del Novecento senza attraversare il nome di Montale, così come lo è per quella europea di fine Ottocento senza passare per Baudelaire. Non che in Brodskij manchino echi voluti (ad esempio nel meriggiare colorato e assorto della III delle Elegie Romane), ma la sua poesia non si può ridurre, sempre, a un semplice confronto. Vi è questa tendenza, nella critica, che tende ad accomunare i testi fra loro, a trovare qualcosa di comune, a vedere le epoche come manifesti coerenti di movimenti storici effettivi. Questo retaggio di storicismo, filtrato dai residui dello strutturalismo, non solo toglie, paradossalmente, l’irriducibile spessore di un testo (che non è mai solo in un tempo ma anche in un luogo, e nessuno lo esprime meglio di Brodskij), ma non ne coglie nemmeno la alterità, come ben dimostra un recente saggio di Luca Formisano contenuto in In Cattedra:
«Il metodo intertestuale, che prevede un confronto continuo con altri testi anteriori che rappresentano i modelli con cui gli autori latini sembrano costantemente ingaggiare confronti, emulazioni e sfide, si è imposto nella mia disciplina sin dalla metà degli anni Settanta come il modo ermeneutico per eccellenza»
Destino, questo, cui non è immune nemmeno la ricezione delle opere poetiche di Joseph/Iosif Brodskij, il cui tono dimesso e al contempo incline alla speculazione metafisica, soprattutto in traduzione italiana (come faceva notare Alfred Sproeder in un articolo su Belfagor), tende a coincidere con la lezione montaliana che impariamo dalle antologie: un tono elevato che si leghi a fatti concreti, a oggetti in una stanza; pensiamo soprattutto, in questo senso, a Satura. Ma questa silloge, che raccoglie alcune delle poesie pubblicate fra il 1972 e l’85, da Fine di una bellissima epoca a Nuove stanze ad Augusta, ci mostra l’autonomia di Brodskij, l’impossibilità di far coincidere due lezioni che si differenziano innanzitutto per il dinamismo da una parte (B.) e l’immobilismo dall’altra (M.); per lo sradicamento dell’Est, sempre legato a vedute ampie (il mare, l’oceano) che si oppone al dettaglio locale mediterraneo (i limoni).

In queste poesie, infatti, il lettore di oggi non troverà sempre il correlativo oggettivo di Montale, talvolta ne sarà spiazzato: e lo vediamo prendendo in considerazione e confrontando due poesie apparentemente simili per movenze, come La Farfalla e L’Anguilla. La Farfalla guarda verso l’esterno della speculazione, l’Anguilla verso l’interno della storia di Montale.
IX (Da La Farfalla)
E invece tu,
tu non hai questo pegno.
A rigore però
Così è meglio:
meglio che con i cieli
essere in debito.
Non affliggerti, se
La tua vita, il tuo peso
Son privi di parola:
è un fardello anche il suono.
Sei più incarnale
del tempo tu, più muta.
Luoghi e forme.
Sebbene nelle immagini di questa penna (sepolta a Venezia) ci sia molta Italia (ad esempio nelle Elegie Romane: il Colosseo è come il teschio di Argo; nelle occhiaie vuote/ gli nuotano le nubi, ricordo dell’antico gregge), la poesia di Brodskij non evoca nemmeno, come si è detto, le atmosfere ad elevato contenuto simbolico di Luzi, che sono intrise di cattolicesimo e provincialismo (in senso buono): la apparente semplicità di Brodskij, anche qualora si travesta di complicatezza, è figlia di un sentimento unico e costante, di una nostalgia della terra, della Russia intera, e non soltanto di Leningrado; una sensazione che il cosmopolita moderno fatica a provare, se non per brevi scorci di costa in cui si sono passate le estati o per piccoli paesi di provincia, verso i quali l’astio si fonde sempre con l’affetto. Ninnananna a Cape Cod, angolo del Massachusetts che guarda l’Atlantico, non è che l’emblema di questo pensiero: vediamo la soglia fra due imperi (io ho cambiato impero. E questo passo fu/ dettato dal fatto che, Dio ne scampi/ veniva puzzo di bruciato da quattro, anzi cinque parti,/ dal punto di vista del corvo); la forza astratta che passa fra l’uno e l’altro, nella quale la banalità dell’esperienza soggettiva non è soltanto il filtro percettivo, ma anche l’unico organo di conoscenza del reale, sul quale tuttavia non vi è possibilità positiva di azione:
V
[…]
Afa. Immobilità di piante enormi. Un cane urla.
La testa, barcollando, trattiene sull’orlo
Della memoria labili numeri di telefono, visi. Se c’è una
Tragedia vera, dove sipario è mantello,
muore non l’eroe fiero, ma, cadendo in sfacielo,
logorata, la scena.
[…]
VII
Solo intessuto di fili di ragno ha diritto
L’angolo d’essere denominato retto.
Solo sentendo ‘bravo’ l’attore si alza. Solo
Con una leva il corpo può alzare il mondo.
Si muove il corpo, solo se la gamba
È perpendicolare al suolo.
Come in Adorno (nei Minima Moralia), anche qui l’esule, che tuttavia accetta il suo destino, riconoscendo, nonostante la differenza di cieli, l’uguaglianza della terra, diventa categoria archetipica: sublimazione di un’esperienza profonda e sofferta. Brodskij fu processato per parassitismo (aveva alternato periodi di disoccupazione e impieghi precari) dal regime sovietico, e fu condannato dapprima a cinque anni di lavori forzati e poi all’esilio. Tuttavia la poesia di Brodskij, e qui sta ancora il suo più grande lascito, non si limita a lamentare una sofferenza; non si limita a raccontare semplicemente perché ha vissuto; al di là di ciò che è successo Brodskij individua il linguaggio, un linguaggio che deve adagiarsi su immagini che dominano le scene e i pensieri, come San Simeone nel Nunc Dimittis, che annuncia il passaggio dal Vecchio al Nuovo Testamento (come fa notare Buttafava, curatore del volume) o la Farfalla dell’omonimo poemetto sovracitato, la più vicina delle poesie qui raccolte alla tradizione inglese che va da John Donne a W.H. Auden, e che lega ancora una volta le correnti espressive occidentali a quelle della Russia, la cui tradizione poetica novecentesca risentiva, all’epoca di Brodskij, dei toni tribunalizi di Evtušenko e Voznesenskij (così li definisce Esposito) e del magistero di Mandel’štam e della Achmatova. Nei versi di Brodskij il retroterra culturale di provenienza si fonde in una melodia che si appoggia a gesti, senza eccedere mai in lirismi ingiustificati, nonostante la vicinanza, per certi versi, ad alcune correnti neoclassiche (per la sintassi, il gusto dell’argomentazione e le figure retoriche, come fa notare Sproeder).

Nuovi miti.
Il mito, in Brodskij, non è solo nella forma. E non è nemmeno nei contenuti. Il paradigma mitico che propongono queste poesie (così come altri sui tesi, come quelli contenuti in Fuga da Bisanzio e, soprattutto, Marmi) sta nella capacità di elevare la propria esperienza al di sopra dell’effetto che genera. È lo stesso processo che affligge la passione di Marcel nelle prime pagine de Le Temps Retrouvé: la necessità di colmare la distanza che passa fra l’impressione e l’espressione, il tentativo di esprimere una visione del mondo che trascenda le cose che si sono viste da quella prospettiva. Una monade, è il mito del Novecento.
Una mitologia personale e storpia, in cui non ci si potrà mai riconoscere completamente. E che cosa resta, di questi miti, se non una parola? O meglio:
Di tutto l’uomo non resta che una parte/ del discorso. In genere, una parte. Parte del discorso.