Quella nota era un lamento che non poteva provenire solo da un barile di rum usato come tamburo. La sua origine doveva essere il cuore, la cavità più recondita, ferita e ancora sanguinante, del cuore collettivo
Paule Marshall, “Danza per una vedova”
Piantare un seme
Quando Valenza Burke era solo un’adolescente non passava pomeriggio che non facesse visita alla biblioteca di Macon Street, la succursale del suo quartiere della Brooklyn Public Library. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, attraversava a passo fiero il quartiere polveroso e giunta lì, superate le grandi porte a vetro e occupato il suo posticino in fondo alla sala, si lanciava voracemente nella lettura di Dickens, di Thackeray, di Fielding.
Di quell’edificio era destinata a conservare un ricordo speciale per il resto della vita. Un po’ per via del suo aspetto imponente: un’enorme costruzione in muratura grigia, grande quasi un isolato, che si spalancava su un ingresso altrettanto maestoso, con tanto di gradinata in marmo e ringhiere d’ottone. Un po’ perché proprio lì, tra gli scaffali di poesia, la piccola Valenza fece un incontro destinato a cambiarle la vita per sempre: quello con la poesia di Paul Laurence Dunbar.
Erano gli anni quaranta, e certe cose non le vedevi mica spesso. Un nero su una quarta di copertina, per dirne una, era una vera e propria rarità. Ma spalancare il libro su una pagina a caso e scoprire che, accidenti, questo qui parla proprio come i tuoi (Little brown-baby wif spa’klin’ / eyes / Come to yo’ pappy an’ set on his knee), quello doveva essere uno shock ancora più grande. Non sorprende che Valenza Burke fosse tanto colpita, e non ci stupiremo se per l’incredulità addirittura rise un po’. Si capisce che era sconcertata, e in effetti fu una rivoluzione: il seme era piantato, aveva capito di poter scrivere anche lei. Fu in quell’occasione che cambiò il suo nome in Paule.
Negli anni avrebbe cambiato anche il cognome, sarebbe diventata Paule Marshall: sarebbe diventata una scrittrice, e i suoi libri sono pieni di storie così.

“E poi c’era casa…”
Nata a New York nel 1929 da genitori originari delle Barbados, la Marshall sviluppò molto presto il forte senso di specificità culturale dei popoli della diaspora africana che caratterizza tutta la sua produzione. Quel senso di appartenenza imparato già nella cucina di casa, dalle conversazioni tra la madre e le zie.
E poi c’era casa. Rievocano casa spesso e a lungo. La vecchia nazione. Le Barbados — o Bimshire, come le chiamavano affettuosamente. La piccola isola caraibica nel sole che amavano ma avevano dovuto lasciare. “Povera — povera ma dolce” così la ricordavano.
Paule Marshall
E in effetti, il tema del continuo impatto della storia sul presente, fatto da un lato di tradizioni e di folklore, dall’altro di ferite collettive che pulsano incessantemente, s’impose da subito come colonna portante della sua narrativa. È il caso di “Soul Clap Hands and Sing” (1961), una raccolta di quattro racconti i cui protagonisti, tutti anziani, tutti rappresentanti di una qualche minoranza etnica, si trovano improvvisamente a rileggere il loro passato mettendo in discussione i valori in base ai quali hanno vissuto.
Ecco cosa sta al centro tematico del lavoro di Marshall: un passato che risuona di continuo nel presente, l’inevitabile sovrapposizione delle storie dei singoli con quella della comunità a cui appartengono. Questa attenzione si riflette con altrettanta forza nelle scelte linguistiche: se è vero che “la lingua è l’unica patria”, in pochi hanno preso questa massima sul serio quanto lei.
Sempre ricordando le conversazioni tra la mamma e le zie origliate da bambina, scrisse che:
Erano donne in cui il bisogno di espressione era forte, e siccome il linguaggio era il solo veicolo immediatamente disponibile lo trasformarono in una forma d’arte — tenendo salda la tradizione Africana per cui arte e vita sono una cosa sola…
Paule Marshall
Fin dall’infanzia, si abituò quindi a vedere nel discorso parlato una vera e propria forma d’arte, e nella sua scrittura fu particolarmente attenta a riprodurne le peculiarità.
Danza per una vedova: ri-conoscere il passato
Da entrambi i punti di vista, il romanzo “Danza per una vedova” (1983) è probabilmente il suo lavoro più significativo. Il romanzo racconta la storia della ricca vedova afroamericana Avey Johnson che, in preda a un inspiegabile senso di angoscia, abbandona la nave da crociera su cui stava viaggiando e scende a Grenada. Qui ritrova, nelle tradizioni locali, una parte d’identità rimossa per inseguire il sogno americano: le sue radici tribali, la sopravvivenza in lei di antenati sconosciuti.
All’apparenza un semplice romanzo di formazione, “Danza per una vedova” rivela una certa complessità dal punto di vista compositivo, in particolare nella gestione dei tempi. Al momento della sua fuga dalla nave, Avey “Si sentiva come qualcuno in un incubo che scopre che la strada lungo la quale sta fuggendo non è dritta, ma circolare, e non ha fatto che riportarlo esattamente al punto dal quale aveva cercato di scappare”.

E in effetti la sua mente non fa che giocarle strani scherzi, portandola avanti e indietro tra l’infanzia, la prima età adulta e il presente: le appare in sogno la vecchia zia Cuney, il marito riemerge dall’ade, l’aria si riempie dell’odore dei pannolini da cambiare, una stanza d’albergo si trasforma nel suo primo appartamento.
Tutti questi ricordi la colpiscono con una forza e una vividità addirittura dolorosi, perché li porta conservati nella carne e nelle ossa: come il sangue africano che le scorre nelle vene, così l’amore per il marito e il dolore del parto sono fenomeni fisici e spirituali al tempo stesso. Non è un caso che sia nella danza che, alla fine, Avey fa pace con i suoi passati, quello collettivo e quello individuale. Anima e corpo, per la Marshall, sono una cosa sola, e se è nel corpo che si conserva la memoria, solo un gesto estremamente fisico può riportarla definitivamente a galla.
Ricordare Paule Marshall
Se Paule Marshall ha dedicato la sua vita e la sua opera a esplorare la memoria e il suo funzionamento, resta da domandarsi in che modo elaborare il suo ricordo. È passato quasi un anno dalla sua morte, il 12 agosto 2019, e per tante scrittrici afroamericane e caraibiche adesso è proprio lei, Paule Marshall, l’antenata da celebrare.
La ragazzina che andava in biblioteca tutti i pomeriggi, che improvvisamente aprì un libro e scoprì un antenato, un padre nella poesia, adesso è diventata madre: sarà successo e succederà ancora che la sua foto in quarta di copertina faccia dire a qualcuno “sì, posso scrivere anch’io”.
E anche se la sua memoria non è la nostra memoria, se il suo passato non è il nostro passato, e se la ferita che racconta non pulsa nei nostri copri, Paule Marshall parla anche a noi. Perché qualunque sia la nostra storia, chiunque noi siamo, che siamo vittime o che siamo carnefici, arriva sempre, per tutti, il momento di fare i conti con il passato.
Immagine di copertina © 2014 by Art Sanctuary.