Nella sua biografia tutto appare incerto, illusorio: le sue idee politiche, i giudizi critici, i drammi personali; tutto, tranne la poesia.
Ehrenburg, Uomini anni vita, 1963
Leggendo queste righe ci è apparso subito chiaro in che modo Marina Cvetaeva parlasse a noi di Judith. La chiave era nell’apparente incomprensibilità, nella contraddittorietà della sua penna. Non solo: nella precisione chirurgica con cui metteva una parola, un segno, un grafema dietro l’altro. Era proprio per la forma del verso, per quell’attenzione minuta ai particolari che compongono la sua poesia, per il metodo affilato con cui le parole venivano scelte: quelle, non altre.
Il mio Puškin
Marina Cvetaeva nasce a Mosca il 26 settembre del 1892. Della sua infanzia, un episodio particolare viene ricordato nel racconto “Il mio Puškin” 1. Una Marina bambina passeggia ogni giorno verso una statua, il monumento di Puškin sulla via Tverskaja, che lei chiama “il-monumento-di-Puškin”, senza percepire differenza tra contenente (il monumento) e contenuto (Puškin).
L’iniziale identificazione di Marina Cvetaeva in Puškin ci fornisce una chiave fondamentale per la comprensione della sua opera e del modo in cui la poetessa faceva fiorire assieme forma e contenuto: la “correlazione tra significante e significato, tra segno acustico e segno grafico, tra contenuto e forma: estrinsecazione dell’essenza” 2.
In Cvetaeva la forma non segue il contenuto, né viceversa. Si tratta di una con-creazione (la stessa azione che la poetessa si aspettava dal lettore: “Non desideravo alleviare in nulla il lavoro del lettore giacché io rispetto il lettore”), di un procedere simultaneo in cui contenuto e forma si avvicinano alla scoperta dell’oggetto della poesia.
Tutto – dalle interpunzioni, agli accenti, ai segni grafici – concorre all’estrinsecazione del senso della poesia: persino nelle estremizzazioni di questo procedere, Cvetaeva non giunge mai al non-senso. Il significato ha un’importanza fondamentale, che si realizza attraverso il significante.

La creazione avviene tramite l’ascolto: “Io non penso, io ascolto. Poi cerco un’incarnazione esatta nella parola.”
E ancora: “Sono sedotta dall’essenza, poi incarno. Ecco il poeta. E incarno (qui già è questione di forma) il più possibile l’essenziale. L’essenza è appunto la forma.”
La precisione è, per la Cvetaeva, un mezzo di ricerca della realtà, della concretezza, dell’indagine sulla vita, in modo che la sua poesia fosse prima fenomeno della vita stessa e poi la sua espressione.
Pietro Zveteremich 2 sostiene che, quella della Cvetaeva, è una tra le poesie meno romantiche: è piuttosto un’operazione conoscitiva che conduce verso una poesia totalmente razionale e intellettuale.
“La scelta delle parole è prima di tutto selezione e decantazione dei sentimenti”. Questa nota della Cvetaeva ci dà conto di una delle caratteristiche che costituiscono la sua scrittura, il suo metodo: il dialogo tra prosa e versi.
Oltre a essere una fine poetessa, Cvetaeva è anche un’instancabile scrittrice di corrispondenze epistolari. Per lei, l’unica vera vita era nel sogno e nelle lettere 3.
I versi crescono, come le stelle e come le rose,
come la bellezza – inutile in famiglia.
E, alle corone e alle apoteosi –
una sola risposta: «Di dove questo mi viene?»Noi dormiamo, ed ecco, oltre le lastre di pietra,
M. Cvetaeva, Poesie, Feltrinelli, 1992, p. 80 (14 agosto 1918)
il celeste ospite, in quattro petali.
Mondo, cerca di capire! Il poeta – nel sonno – scopre
la legge della stella e la formula del fiore.
Alcune delle lettere più famose sono quelle della corrispondenza con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke. Le lettere sono un modo per attraversare l’esistenza, per eseguire l’esistenza.
Serena Vitale 3 ricorda come, in Cvetaeva, la differenza tra byt e bytie non sussista. Questi due concetti, pressoché intraducibili dal russo, possono essere ricondotti al significato di vita/esistenza quotidiana (byt) e “condizione attiva dell’essere, regno delle intenzioni, progetti, desideri, libertà”, in una parola Esistenza (bytie).
Non c’è da stupirsi che la Cvetaeva insista sul nesso tra i due concetti, o meglio incarni quel nesso.
Perché? Perché è da un grande maestro del byt che discende la sua prima fascinazione per la poesia.
Nell’Evgenij Onegin, Puškin 4 fa continui riferimenti alla vita quotidiana e, se questo stupiva i suoi contemporanei che vivevano quelle informazioni, oggi ci permette di farcene un quadro preciso. Ma quella vita quotidiana (byt) non si allontanava mai dalla sua sublimazione, e quindi dall’Esistenza (bytie).
Ecco il dialogo tra la prosa epistolare e la poesia: il bisogno di un interlocutore, di un ascoltatore, e infine di un orecchio assoluto in cui straripare perché gli esseri devono attraversarsi, perdersi l’uno nell’altro in recipienti senza fondo 5.
La spensieratezza è un caro peccato,
M. Cvetaeva, Poesie, Feltrinelli, 1992, p. 81 (1918)
caro compagno di strada e nemico mio caro!
Tu negli occhi m’hai spruzzato il riso
e la mazurca mi hai spruzzato nelle vene.
Poiché mi hai insegnato a non serbare l’anello,
con chiunque la vita mi sposasse.
A cominciare alla ventura – dalla fine,
e a finire – ancor prima di cominciare.
A essere come uno stelo, ed essere come l’acciaio.
Nella vita, in cui così poco possiamo,
a curare la tristezza con la cioccolata
e a ridere in faccia ai passanti.
Amate il mondo in me
“A essere come uno stelo, ed essere come l’acciaio.” Questa è l’incarnazione tutta vitale della Cvetaeva, la tensione tra il vivere e la vita, il bisogno di essere e di non essere.
È in questa apparente contraddizione che si scioglie il nodo della sua personalità.
Mi si può seguire soltanto sui contrasti, cioè sull’onnipresenza di tutto. Io sono molti poeti insieme e come in questo abbia potuto in me affiatarsi è in fondo il mio segreto.
Nel 1941, la tensione tra byt e bytie arriva a un punto di non ritorno. Ormai da due anni, la Cvetaeva non riesce più a scrivere: è intrappolata nella non-espressione, avverte il finire di tutte le cose. Scrive: “Io non voglio morire. Io voglio non esistere.”
Il 31 agosto del 1941 si suicida, impiccandosi, a Elabuga.
Questo gesto appare un’altra azione volta a rinsaldare il rapporto tra vita e Esistenza, facendo traboccare, o meglio straripare, la vita fragile della poetessa-donna nella non-Esistenza eterna.
Questo mi ha sempre soffocato, questa ristrettezza. Amate il mondo – in me, non me – nel mondo! Perché Marina significhi “mondo” e non il mondo, “Marina”.
M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, Adelphi, 1988, p. 196
1Pubblicato per la prima volta nel 1985 da Marcos y Marcos, e riedito nel 1991, assieme al ciclo di poesie “Insonnia”, sotto il titolo “L’armadio segreto”.
2 P. Zveteremich, Nota introduttiva alla nuova edizione di M. Cvetaeva, Poesie, Feltrinelli, 1992, p. 36
3 In Introduzione a M. Cvetaeva, Il paese dell’anima, Adelphi, 1988, a cura di Serena Vitale
4 Si veda il libro di Paolo Nori, “I russi sono matti” (2019, Utet) per un tentativo di approssimazione del concetto di byt e per il riferimento a Puškin.
5 Laura Boella, Le imperdonabili, Mimesis edizioni, 2013, Marina Cvetaeva, pp. 107-123
Profonde le parole che colpiscono l anima di chi ha dentro tanta sofferenza.