Si diceva sempre per ora, e si era sempre allo stesso caso.
Maria Messina, “L’ora che passa”, Piccoli Gorghi
La vita come novella
Che il nome di Maria Messina resti ancora, per moltissimi, del tutto sconosciuto è un vero mistero, un fatto inspiegabile, data la qualità del suo lavoro, e anche piuttosto ironico — ironico perché nei suoi racconti di vinti, di rivalse che non arrivano mai, di porte chiuse e stanze piene di polvere, sembra aver prefigurato il suo stesso destino, tanto di donna quanto d’autrice.
Nata a Palermo nel 1887, Maria Messina viene educata in casa dalla madre e dal fratello maggiore Salvatore. Sono loro a notare e incoraggiare il suo talento letterario, che fiorisce molto presto. Il suo è un esordio promettente: la minuta Maria, con il “visino pallido dai grandi occhi luminosi” (così la racconta la nipote Annie, scrittrice anche lei), sembra avviata verso il successo già giovanissima. Appena ventiduenne pubblica la prima raccolta, Pettini fini (1909), attirando su di sé l’attenzione di Giovanni Verga: inizia così la loro lunga e incoraggiante corrispondenza.
Sui giorni dell’esordio, la Messina si esprime in questi termini “la buona accoglienza non fu, per me, se non motivo di sgomento: la mia anima solitaria tremò e si chiese più volte: saprò io mantenere le mie promesse?”. Per la verità, pare riuscirci: negli anni successivi la sua produzione si arricchisce di moltissime novelle, fiabe per bambini e, a partire dal 1920, anche di diversi romanzi. Ma proprio allora, raggiunta la piena maturità letteraria, l’aggravarsi della sua malattia le impedisce progressivamente di scrivere. Maria Messina si ritrova a poco a poco costretta al silenzio, a una dolorosa afasia che la isola irrimediabilmente dal milieu letterario.
Accade in questo modo che, l’autrice ancora in vita, il suo successo sbiadisce lentamente. Del resto, non è mai riuscita a liberarsi dell’ombra di Verga, di cui è sempre considerata una “scolara”. Alla vigilia della sua morte, nel ’44, è ormai dimenticata.

Una seconda rivalsa: la riscoperta di Sciascia
Tutti i racconti di Maria Messina, in particolare quelli con protagoniste femminili, seguono un andamento simile: un evento inaspettato stravolge di colpo una quotidianità triste e ripetitiva, nella quale in genere si ricade immediatamente dopo. Di questo consistono le sue novelle: seducenti visioni di cambiamento, che tuttavia non si realizzano mai.
Così ancora una volta, nella sua fortuna postuma come era accaduto in vita, la realtà imita la letteratura, e il lavoro di Maria Messina ritorna per un momento sotto i riflettori, per ricadere nell’ombra l’attimo dopo. Negli anni ’70 le sue novelle vengono all’attenzione di Leonardo Sciascia, che vede in lei molto più che una scolara di Verga. Si fa quindi promotore di una serie di riedizioni delle sue opere, che escono per Sellerio (alcune delle raccolte recuperate allora sono ancora in catalogo). È solo a questo punto che il vero valore dell’opera di Maria Messina viene finalmente alla luce. Nell’introduzione a Casa Paterna, Sciascia scrive così:
Ci meraviglia, piuttosto, che nell’attuale urgenza delle rivendicazioni femminili e femministe, nell’attenzione alle scrittrici del passato e nel tentativo di costruire, principalmente attraverso la loro opera, una rappresentazione della condizione femminile nel mondo, in Italia e particolarmente nel meridione d’Italia, i non pochi suoi libri siano rimasti del tutto ignorati.
Leonardo Sciascia
Non gli si può dar torto! Nella stessa introduzione, Sciascia mette in luce alcuni aspetti della narrativa di Maria Messina fino ad allora del tutto ignorati: no, non è stata soltanto una “scolara di Verga”. Più vicina a Pirandello, per l’umanità raccontata — la piccola borghesia siciliana, le apparenze da salvare, il brusio costante del pettegolezzo che logora e uccide. Da accostare a Čecov, per la brevità tanto pregna di significato delle sue novelle. E soprattutto, particolarmente affine alla contemporanea Katherine Mansfield, per l’attenzione allo spazio e all’interiorità dei personaggi, che si riflette delicatamente negli oggettini insignificanti del quotidiano: scialli neri, scarpette mai indossate, cassapanche che si coprono di polvere.

Esistere dietro porte chiuse
Attraverso questa formula stilistico-narrativa unica, Maria Messina dà voce alla condizione della donna nella borghesia del primo Novecento, rompendo finalmente il mutismo che la caratterizza. Racconta esistenze silenziose, che si consumano dietro porte chiuse, asfissiate dall’autorità di padri, fratelli, e mariti. E non sorprende che sia lo spazio immobile a esprimerne le emozioni: la semiotica statica degli interni riflette le istituzioni familiari e matrimoniali, funzionali prima di tutto alla conservazione dell’ordine sociale.
Lo si vede bene nella novella “La porta chiusa”. Per Donna Ienna, la protagonista, la stanza da letto diventa una vera e propria prigione. Qui, con la scusa di preservare la salute cagionevole della donna, il marito la tiene praticamente reclusa: così le nasconde la relazione clandestina con la domestica Salvatura. In altri casi, quando magari una porta si spalanca, al limite la vita si sposta su una qualche soglia: si consuma, a quel punto, nel limbo dell’attesa. Così accade nella novella “La Mèrica”, dove la sposa Catena, “passava le intere giornate accoccolata sull’uscio”, ad attendere notizie dal marito emigrato in America, che lei non aveva potuto seguire a causa di un’infermità agli occhi.
Maria Messina racconta queste esistenze immobili con uno sguardo unico, tanto semplice quanto profondo, che per la sua acutezza quasi meraviglia. Ne è meravigliata, tra i suoi contemporanei, la poetessa Ada Negri, che nell’introduzione a Le briciole del destino si esprime così:
Le briciole del destino… tu hai voluto studiare quei cantucci di umanità, che sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di vecchie ragnatele, di vecchie lagrime rancide. Tu vi sei riuscita, piccola sorella Maria. Come?…
Ada Negri
E noi non possiamo fare a meno di domandarcelo ancora: coma ha fatto, Maria Messina? Dove ha trovato, quella “donna minuta con un visino pallido dai grandi occhi luminosi”, la forza di denunciare, ante litteram, la banalità del male e la piattezza del dolore?
Risalire il gorgo, ancora una volta
La risposta forse sta nel fatto che, nonostante la disillusione di Maria Messina e le innumerevoli delusioni inflitte ai suoi personaggi, esiste, in lei e nel suo lavoro, un’incontenibile afflato di libertà. “Saprò io mantenere le mie promesse?”, l’abbiamo scoperta a domandarsi nei giorni dell’esordio. Sarà interessante notare che si risponde in questo modo qua: “ma presto dimenticai di avere promesso qualche cosa. Avevo bisogno d’essere libera, di creare liberamente. Non potevo fermarmi a contemplare me stessa!”
Così di fronte a ogni fallimento, a ogni ostacolo postole dalla vita, Maria Messina aspira alla libertà ancor prima che alla fama. Un atteggiamento sicuramente nobile, eppure ci sembra giunto il momento di renderle il riconoscimento che merita.
Aveva proprio ragione Sciascia: quante cose ha ancora da dire, Maria Messina; sarebbe il caso di cominciare ad ascoltare! In effetti, dopo la riscoperta, il suo lavoro ha conosciuto una seconda stagione di notorietà, specialmente in ambito accademico. I suoi lavori sono tradotti e studiati anche all’estero (sono particolarmente apprezzati in Francia), e, nel 2009, il comune di Mistretta ha lanciato il premio Maria Messina. Tuttavia, nonostante il rinnovato interesse nei suoi confronti, la sua fama è sempre rimasta circoscritta a una piccola nicchia di ammiratori e studiosi; non ha mai raggiunto il grande pubblico e molto spesso nemmeno i manuali universitari.

Anche questa volta il riscatto è stato solo parziale, solo sfiorato, ma Maria Messina, senza dubbio, merita di più. Recentemente, i suoi romanzi sono tornati in libreria, editi da Edizioni Croce. Noi speriamo e crediamo che, almeno questa volta, siano lì per rimanerci.