
«Tutte le traduzioni sono necessariamente difettose», esordisce così Schopenhauer interrogato attorno al bollente tema della traduzione.
Gìà molto prima Dante, nella prima parte del Convivio, si era pronunciato sulla difficoltà di una traduzione capace di non tradire i principi di musicalità e di armonia del testo, capace cioè di non variare il delicato e intricato equilibrio di melodia, ritmo e dunque di estetica. (Dante stesso tradurrà più volte Virgilio: è dunque impossibile una buona traduzione?)
«Non è il tradurre un’impresa disperatamente utopica?», si chiederà poi nei primi anni del Novecento il pensatore e critico spagnolo José Ortega y Gasset che a partire dalla riflessione su due parole appartenenti a due lingue diverse che indicavano la medesima cosa, arriva a sostenere che non è pensabile attribuire a quest’ultime il medesimo significato. «La loro incongruenza è naturale», continua Ortega y Gasset, «perchè frutto di diverse influenze e contaminazioni, di differenti circostanze ed esperienze di vita.»
Come porci dunque innanzi alla riflessione sulla traduzione? Come muoverci nello spartiacque tra difficoltà della traduzione e necessità della medesima? Quanto è possibile sacrificare, quanto è necessario scostarsi dal testo e quanto invece attenersi? Occore immedesimarsi nello scrittore straniero, mediare tra il significato stretto delle parole e il senso del testo? E così facendo raggiungeremo la miglior forma del nostro testo, anzi del loro? Di un testo che da altri è stato scritto e che giunge a noi per essere codificato e quindi fatto rinascere in un’altra lingua, in un altro tempo?
Importante è innanzittutto sottolineare come nessuna traduzione sia eterna. Le traduzioni si rincorrono, evolvono, mutano quanto mutano le lingue e le epoche, cambiano di traduttore in traduttore in versioni e interpretazioni diverse. Come districarci quindi in questa riflessione?
Abbbiamo chiesto un parere a Marco Rossari, scrittore e traduttore per Einaudi. Tra i suoi libri: L’unico scrittore buono è quello morto (Edizioni e/o 2012), Piccolo dizionario delle malattie letterarie (Italo Svevo 2016) e Le cento vite di Nemesio (Edizioni e/o 2016), selezionato fra i dodici candidati al Premio Strega 2017. Tra i tanti autori tradotti da Rossari troviamo Charles Dickens, Mark Twain, Percival Everett, Dave Eggers, Alan Bennett, Hunter S. Thompson, John Niven.
Qual è la tua formazione? Come si diventa traduttori? A te com’è successo?

Mi sono laureato in Lettere, con indirizzo angloamericano, anche se a tutti in facoltà sembrava una bizzarria (avevo, però, l’illustre precedente di Cesare Pavese). Poi ho seguito una specie di master chiamato Setl, ossia Scuola Europea di Traduzione Letteraria, a Firenze. Detto questo, non so bene come si diventa traduttori. È una deformazione mentale, credo. A me piaceva l’inglese, traducevo i testi di Bob Dylan, amavo la letteratura. Ma in realtà una scuola vera e propria non c’è. Si dice spesso che è un mestiere artigianale, eppure è così. Lavori a bottega da te stesso, impari sbagliando, leggendo, rileggendo, con umiltà. E le lingue continuano a cambiare. E tu anche. L’ultima traduzione crea problemi come la prima.
Quali sono le competenze necessarie per diventare dei buoni traduttori e come fare per acquisirle?
Bisogna più che altro lavorare tanto. Ci sono grandi scrittori che si sono lanciati nella traduzione e ne sono usciti malissimo. È una livella. Non basta saper scrivere, non basta conoscere la lingua da cui traduci e la lingua verso la quale traduci, non basta avere letto tanto. Servono tutte queste cose, poi ogni volta ti ritrovi a fare un corpo a corpo con un’espressione, un giro di frase, un concetto. E lì il dizionario non serve a nulla.
Qual è il testo con cui ti sei appassionato alla traduzione? Cosa ti è piaciuto di più?
Non saprei. La prima traduzione di cui sono andato abbastanza fiero era Le avventure di Huckleberry Finn. Che è un libro semplicemente fantastico. E mi piaceva misurare il mio orecchio con lo slang, i dialetti, l’umorismo.
Tradimento – Fedeltà: quanto è lecito uccidere e quanto risparmiare al fine di ottenere la miglior resa di un’opera?
È un falso problema. La traduzione è un continuo compromesso tra due testi, tra due culture, tra due lingue, tra due persone.
Hai timore di “uccidere” una parte di testo? Quanto la possibilità che questo avvenga condiziona il tuo lavoro di traduttore?
Uccidere, no. Ho paura di sbagliare, di essere stanco, di peccare di presunzione, di non capire una cosa per svariati motivi. Quindi non uccidere. Semmai ferire, piegare, acciaccare, fare lo sgambetto.
Qual è, secondo te, il testo migliore?
La traduzione perfetta non esiste. È un continuo divenire, è impermanenza.

Come ti poni davanti ad un testo che ha già una lunga storia di traduzione alle spalle? Tieni le traduzioni più buone come il primo punto di ri-partenza?
No. Le consulto se ci sono scelte difficili da fare, oppure per curiosità. Ma di norma le ignoro per tutto il tempo. Il primo punto di ripartenza è sempre il testo originale.
È più facile tradurre un autore vivo o morto? Perché?
Quello morto non si lamenta, però non risponde nemmeno alle mail. E di norma è più bravo: è diventato un classico, è più difficile. Quindi è più facile tradurre un autore vivo, direi, anche se chi usa una lingua molto contemporanea, piena di espressioni gergali, ti genera un mucchio di problemi. Tradurre Orwell è una grande e faticosa responsabilità, ma anche tradurre un medical thriller odierno ambientato su un’ambulanza ti dà un sacco di grattacapi.
Qual è il rapporto tra traduttore e autore? Esiste un rapporto di collaborazione reciproca o il mestiere del traduttore è piuttosto autonomo? Qualche celebre leggenda su autori offesi a morte da traduzioni considerate non all’altezza del testo in lingua originale?
Sì, ci si scrive, via mail. A volte ci si incontra. Possono nascere amicizie. Oggi è più semplice di un tempo, quando nessuno poteva aiutarti e i dizionari erano lacunosi. Adesso che mi ci fate pensare, c’era uno scrittore che aveva tradotto Joyce in modo molto avventuroso e folle: era Joyce stesso. Chissà cosa si sono detti.
E tu da scrittore come vivi la traduzione dei tuoi libri?

In realtà sono stato tradotto in lingue che non conoscevo. L’ho vissuta bene. Ho dovuto rispondere a qualche mail gentile e dei libri che mi sono stati spediti non capivo nemmeno una parola.
Qual è il testo che non hai ancora tradotto e che desidereresti tradurre?
Mi sarebbe piaciuto tradurre Lamento di Portnoy. Ma temo che sia tardi.
Qualche progetto futuro?
Tradurre i tre libri che ho sulla scrivania qui accanto a me. Scrivere un nuovo romanzo. Sperabilmente tornare a bere un bicchiere di vino al baretto sotto casa.