Intervista a Loredana Lipperini
Loredana Lipperini io la conosco solo attraverso uno schermo: seduta su una poltrona di quello che presumo essere un tessuto marrone, dietro di lei una libreria piena di tutti quei titoli di cui parla in radio. So che se ne legge uno al giorno. Vorrei sentire il profumo delle sue sigarette, capire se si mischia a qualche fragranza che usa per i suoi capelli ricci e biondi che le ricadono lunghi, non so fino a dove, dal mio punto di vista solo fino a sotto la scrivania. Ma vedo solo il fumo.
Loredana la conosco come scrittrice attraverso i suoi libri e come docente esperta del fantastico, e del gotico, e del femminismo, e dell’essere madri, e dei suoi gatti: di Lagna, di cui seguo le vicende sul suo profilo Instagram. Perché chi conosce Loredana Lipperini, anche solo dietro ad un computer, sa quanto è importante Lagna per lei; e anche Altair, non vorremmo mai offendere Altair.
“La notte si avvicina” è il suo ultimo libro pubblicato da Bompiani, dove si parla di peste e morte. “Non è un libro gotico, ma filosofico”, ci tende a precisare.
La distopia esiste già dentro di noi? È questa la prima domanda che le ho fatto dopo un ciao come stai. Ad una risposta siamo arrivate, e siamo andate anche oltre, in bilico sul burrone che si pensa esserci tra il fantastico e il reale. Anche se alla fine noi ci siamo buttate giù.
Stella stellina, la notte si avvicina
Perché avrei dovuto riconoscere non i presagi, ma i segni, che sono una cosa diversa, perché i segni sono normalissimi, si confondono con i gesti di tutti i giorni, si mischiano al pane e al latte che infili nella busta e al rumore del trapano del vicino che ti sveglia alle sette. Dunque, ho visto i segni e li ho trascurati, pensando che non sarebbe potuto accadere proprio qui, dove vivevo io, e dove hai vissuto anche tu. Abbiamo paura di credere a quello che il nostro cuore ci dice, ci giriamo sempre dall’altra parte. Ed ecco cosa succede.
Alessandro Baricco dice che lo scrittore è colui in grado di cogliere punti sparsi nel tempo e nello spazio, unirli tra di loro e prevedere il futuro. Basta leggere le “distopie canoniche” (Orwell, Bradbury, Huxley) per capire quanto sia vera questa affermazione. Ma i segni, dice Loredana nel suo libro, sono normalissimi, si confondono con i gesti quotidiani.
Loredana Lipperini inizia a scrivere il suo libro nel 2016: parla di Vallescura, un paese immaginario del marchigiano, dove nel 2008 scoppia un’epidemia di peste, che uccide quasi tutti i cittadini. Leggere “La notte si avvicina” ti porta esattamente in quel posto oscuro e disturbante dei mondi distopici: dalla prima pagina capisci che qualcosa è andato storto. Si parla di peste, ma potrebbe benissimo essere il COVID. I sintomi sono simili: febbre alta, isolamento. Ci si ammala tramite il contatto con i contagiati. Come ci si sente quindi a prevedere il futuro?
L: Ero sconvolta, sia per la situazione obiettiva sia perché l’avevo previsto. La mia prima preoccupazione letteraria, tralasciando quelle personali e sociali, è stata “Non mi crederà nessuno”. Poi per fortuna non è stato così: è dal 2016 che sul blog (Lipperatura, n.d.r.) e sui miei profili social raccontavo che stavo scrivendo un libro sulla peste. Tanti mi guardavano con un sopracciglio alzato: “Perché vuoi scrivere un libro sulla peste” mi chiedevano, io rispondevo “secondo me è necessario scriverlo”. Avevo come modello Camus: l’idea era di ripetere indegnamente quell’operazione, cercare di capire come uno stato d’animo di indifferenza, dimenticanza e chiusura in se stessi potesse essere raccontato attraverso un flagello come ha fatto lui dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Una cosa che mi ha fatto ridere nelle prime settimane del lockdown era il fiorire di articoli sulla letteratura della peste. Ho pensato “Adesso ve ne accorgete? Diamine. È una letteratura bellissima che racconta situazioni estreme, è una letteratura potente”.
È successo così: ha lavorato per quattro anni sulle antiche cronache, letterarie e non, dove si parlava non solo dei sintomi, ma delle reazioni delle persone, perché quelle non cambiano mai. In particolare mi cita Tucidide, Ovidio e Boccaccio. A “La notte si avvicina” aggiunge solo pochissimi dettagli dopo il lockdown di marzo e aprile, soprattutto legati alla situazione di straniamento: non si sarebbe mai immaginata di camminare per le strade di Roma deserte, dominate da un cielo rosso, dalle cornacchie e dai gabbiani.

Ci siamo fermati tutti in quei due mesi e abbiamo osservato il mondo dalla finestra, abbiamo fatto la corsa alla carta igienica e temevamo di essere contagiati da un barattolo di fagioli.
Viviamo in un mondo distopico: non era quello a cui eravamo abituati e non lo è nemmeno ora. Aspettiamo le conferenze di Conte in televisione come farebbe un qualunque personaggio di un libro in cui c’è un potere forte che controlla la sua vita e lo obbliga a rispettare regole impossibili. E in questo caso mi chiedo, temiamo di più lo Stato o un virus di cui non esiste cura?
L: La paura, il sospetto, la vergogna, il senso di colpa c’erano già in tutte le altre storie. Il che ti dice che davanti al Male e all’inaspettato reagiamo come si sono comportati i nostri predecessori. L’unica differenza è che i primissimi cronisti davano la colpa ad un Dio: nell’Iliade è Apollo che scaglia i dardi della peste, poi sarà Giunone in Ovidio che indignata scaglia quest’aria velenosa.
Noi invece protestiamo in Piazza, usciamo senza mascherina, insultiamo i politici che vogliono limitare le nostre libertà. Di chi è davvero la colpa?
La fiamma traballa, la mucca è nella stalla
Non importa se contagerò qualcuno. L’isolamento no. Non voglio lasciare la mia casa. I miei cari, anche se moriranno con me. Mi vergogno. Mi vergogno. E per far passare la vergogna andrò a comprare il latte. E il latte ovviamente non c’era, non c’era più niente, si scantonava negli angoli, cercando l’ombra e la solitudine, e qualcuno infine si sarebbe incontrato, e il morbo avrebbe corso ancora.
La colpa, ci diciamo, non è mai nostra, perché facciamo fatica ad accettare i cambiamenti interni o esterni. Rimaniamo saldi nelle nostre convinzioni, nelle nostre utopie mentali. Guardare oltre la nostra bolla è troppo difficile. Perché facciamo fatica ad accettare i cambiamenti?
Il libro di Loredana Lipperini ne è pieno: Vallescura viene messo sotto lockdown, transennato e presidiato giorno e notte dall’esercito, nessuno entra e nessuno esce. I personaggi vengono lasciati da soli con le loro paure, i loro sensi di colpa, i loro segreti. C’è chi riesce ad imparare dal passato, come Saretta che vuole difendere il suo paese; c’è Chiara, che prende una decisione importante e la sua vita da “giusta” avrà finalmente significato; e poi c’è Maria, che diventa se stessa solo alla fine del libro, quando cede a quella parte di male che ha nel cuore e che forse aveva dentro da tempo. Ma bisogna aspettare gli ultimi capitoli per vedere quanto Maria abbracci la parte distopica del suo carattere.
L: Secondo me è questo che raccontano le distopie: il male misto al bene. Ce lo aveva già insegnato Doestoevskj: non si può raccontare un personaggio completamente negativo privandolo di umanità. È una cosa che noi abbiamo terribilmente dimenticato nella letteratura. Qualcuno ci prova a fare questo passo, e ci dice che anche noi, in fondo, potremmo fare quelle atrocità, non ci sono da una parte i giusti e dall’altra i deboli e quando qualcuno ce lo fa notare ci stiamo malissimo e porta ad una catastrofe.
Loredana mi cita l’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, “La città dei vivi” come esempio di questo Male compiuto da una persona comune, come potrei essere io.
Quando scriviamo (o leggiamo) una storia, scopriamo parti di noi stessi: i personaggi vivono sotto alle nostre mani ma più crescono più prendono le loro direzioni, fanno sbagli che noi non vorremmo e soffriamo con loro per ogni cosa che gli capita. Sta ai personaggi decidere se andare avanti, rimanere nella propria utopia e non cambiare mai oppure sbagliare, e sprofondare nella distopia che già hanno dentro, o se preferiamo, il Male.
L: Maria è il personaggio su cui ho faticato di più e sono felice che sia il tuo personaggio preferito. Se vado a vedere le sei stesure de “La notte si avvicina”, Maria cambia continuamente. Inizialmente mi sfuggiva tra le mani, certo le faccio capitare cose tremende, però era troppo passiva, troppo vittima sacrificale, troppo agnellina.
Io non sono come quegli scrittori meravigliosi che hanno già pensato tutto e l’hanno scritto su tanti post-it. Io so più o meno dove comincio e dove voglio arrivare, però moltissime cose le scopro scrivendole.
Sapevo che ad un certo punto Maria doveva cambiare ma è lei a non volere, è prigioniera del suo dolore. Non ha mai considerato la sua parte di colpa, si è sempre pensata come vittima. Poteva migliorare ma non se n’è mai resa conto, pensava di non esserne capace.
Anche Chiara che è il personaggio più “luminoso” del mio libro è bloccata, si considera una dei giusti, una buona, eppure non incide sulla vita degli altri se non nel finale, quindi sostanzialmente è colpevole anche lei.
La mucca e il vitello, la pecora e l’agnello, la chioccia e il pulcino
Perché è sempre dal passato che arrivano i mostri: tutto quello che abbiamo lasciato in sospeso è anche quello che al momento giusto si sveglia e decide di sbranarci.
Loredana all’inizio della nostra conversazione mi spiegava della ricerca che ha svolto per capire le reazioni e le emozioni dei suoi personaggi. La letteratura ci aiuta ad affrontare il futuro? Possiamo davvero imparare dal passato?
Non ne sono così sicura. La Storia si ripete e anche noi facciamo sempre gli stessi errori. Abbiamo tutti degli sbagli ricorrenti, insiti in noi, di cui non riusciamo a liberarci nemmeno dopo mille docce, dopo i rimproveri, dopo le porte in faccia.
Anche nelle piccole cose mostriamo le nostre dimenticanze, dal mettere la Moka sul fornello senza l’acqua e farla scoppiare, all’arrabbiarsi se qualcuno si dimentica il giorno del nostro compleanno. Basta pensarci un momento e i pattern si trovano facilmente.
Ripetere il mondo come lo abbiamo costruito nella nostra testa ci fa sembrare meno reale quello che sta fuori e che ci spaventa. Se non riusciamo ad imparare dal passato, la letteratura che ruolo ha? Perché scrivere se non ci aiuta a migliorare il nostro futuro?
L: La letteratura aiuterebbe eccome, purché venga letta. Considera che gli scritti sulla peste, ad eccezione di Camus e dei Promessi Sposi, non è che si faccia a pugni per leggerli. Anche “L’ombra dello Scorpione” di King non viene considerato nel suo realismo. C’è ancora una gran parte di lettori e scrittori che considerano non credibile tutto quello che non è aderente al reale.

Se la letteratura si leggesse in controluce, capendo quanto c’è di reale dietro al racconto, potrebbe aiutarci. Sei tu lettore che devi fartela vicina: il compito della letteratura è dirti le cose, tu devi farla entrare nella tua vita.
Sai quando ci fu la rinascita di leggende e di miti? Dopo la prima Guerra Mondiale, quando i reduci o i parenti dei morti vagavano in cerca delle fate e del piccolo popolo. Fu lì che Tolkien cominciò a concepire “Il Signore degli Anelli”, non per riportare pedissequamente l’esperienza spaventosa che aveva vissuto in trincea ma per cercare di esorcizzare quel trauma collettivo in un racconto epico. Non possiamo pensare che “Il Signore degli Anelli” sia una cosina carina per bambini dove ci sono gli elfetti e gli orchetti, è una narrazione più forte.
Ognuno ha il suo bambino, ognuno ha la sua mamma
Dunque il suo corpo si disferà dolcemente sul pendio, e quando le foglie diventeranno rosse cadranno lievi su di lei e ne nasconderanno lo sfacelo, e infine verrà la neve e la coprirà tutta, e avrà modo di diventare ossa lucide e non più scandalose in tempo per la primavera, magari, quando qualche pastore percorrerà la strada, forse, e forse un lembo dei jeans sarà ancora abbastanza azzurro da essere visibile.
Quando scegliamo di non cambiare, ci arrocchiamo sui nostri lati peggiori, immersi nei nostri pregiudizi e nelle nostre convinzioni. Lottiamo in nome di un bene superiore: ma questa nostra chiusura ci porta a diventare peggiori, una distopia di noi stessi.
Facciamo di tutto per rimanere legati ai ricordi del “prima, quando si stava meglio“, come se non avessimo davvero accettato cosa sta succedendo. Pensiamo sia un sogno e non riusciamo a capacitarci di quanto la distopia sia ormai nella realtà esterna.
L: Tutte le distopie sono già dentro di noi. Pensa anche alle grandi distopie, non tanto a quelle apocalittiche ma quelle tiranniche. In ognuna di esse è contenuto un germe di possibilità, tanto è vero che poi molte delle cose che descrivono si sono avverate.
Anche la Atwood riferendosi a “Il racconto dell’ancella” ha detto che non ha mai scritto una riga che non fosse già accaduta nel passato spingendo all’estremo gli scenari.
Le distopie non inventano niente ma nemmeno le grandi ucronie distopiche: pensa a Philip Dick ne “L’uomo nell’alto castello” dove racconta cosa sarebbe accaduto se la Germania avesse vinto la guerra. È uno scenario plausibile, realistico.
La distopia è un po’ il pedale sull’accelleratore su quello che già esiste. Il grande fraintendimento sul fantastico è che sia irreale, mentre è profondamente realista, oserei dire più della letteratura che si proclama tale. Pensa di nuovo a “L’ombra dello scorpione” di Stephen King, pubblicato nel ’78, dove parla dell’epidemia di super influenza. A lui non interessa tanto la profezia ma la dinamica dei rapporti sociali che si crea in seguito a quell’evento.
Mi metto a ridere e annuisco. Sarebbe davvero molto bello se la letteratura fantastica venisse considerata al pari della letteratura realista ma purtroppo non è così. In Italia è ancora considerata “di genere” e molti la rifuggono perché, appunto, non la ritengono degna della loro attenzione.
È un’impresa impossibile, lo so già. Ma la mia utopia in testa non me la leva nessuno: come facciamo, Loredana, a far cambiare idea alle persone?
L: Secondo me serve questo: educare a leggere senza pregiudizi e si scopriranno molte più cose di cui si immaginava. Proviamo ad andare oltre i nostri stereotipi. Se ci provassimo, capiremmo che in realtà alcune narrazioni ci sono molto vicine.

Aggiungo anche che secondo me è persino sbagliato parlare di generi: ormai chi scrive lavora in una commistione tra reale e fantastico, quello che in gergo si chiama slipstream ed indica tutto quello che è ibrido, dove non c’è un confine netto tra ciò che è vero e ciò che non lo è. Slipstream sono Borges, Murakami, Ishiguro, Newman.
Shirley Jackson si arrabbiava quando le davano della scrittrice gotica: diceva “io sono una scrittrice che racconta semplicemente la faccia oscura di ognuno di noi”. Poi certo, in alcune narrazioni ci sono spunti più fiabeschi o dichiaratamente legati al genere, però io già faticherei a definire “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” di Martin un fiabesco, non è nemmeno un fantasy vero e proprio né uno sword and sorcery (fantasy eroici, n.d.r.). È una saga epica ma ci dice tante cose di noi.
Ne “La notte si avvicina” ci sono le streghe, c’è il bosco, c’è la maledizione, il flagello, un fantasma…il tema del gotico c’è ma il mio libro non è un romanzo gotico. Non c’è una narrazione borghese però non è nemmeno Harry Potter: non ho creato un mondo ex novo. Il mondo è il nostro: la cosa che mi piace di più è inserire il fantastico nel quotidiano.
E tutti fan la nanna…
[Maria] Dovrebbe sentirsi un mostro e si sente, invece, intera, riconciliata con se stessa. Nessuno al mondo le ridarà quello che ha perso, ma tutta questa morte che si allarga sotto di lei, nel paese che non trova sollievo, la rende viva.
Starei ore a parlare con Loredana: rispondendo ad ogni mia domanda apre nuovi mondi, mi cita autori e autrici che conosco e altri che non ho mai sentito nominare. Vorrei parlare con lei dei libri che ho letto, discuterne insieme, analizzarli nel dettaglio. Siamo a quaranta minuti di chiamata e mi sembra di poter scrivere almeno cinque articoli diversi.
L’ultima cosa che dico a Loredana è quanto Maria mi ricordi le protagoniste di “Ragazze elettriche”, romanzo corale di Naomi Alderman. La domanda in sottofondo che si sente in tutto il libro è “se le donne avessero un potere più forte degli uomini, il mondo sarebbe migliore o sono pronte a compiere le stesse atrocità che vengono attribuite solo ad un pensiero maschile?“
Le donne del libro della Lipperini sono donne forti, che combattono contro nemici esterni o con il male che hanno dentro. La Alderman scrive “L’unica onda che cambia qualcosa è uno tsunami. Devi buttare giù le case e distruggere il paese se vuoi essere certa che nessuno si dimenticherà di te”.
Forse Maria alla fine vuole semplicemente questo: non essere dimenticata dai suoi figli. Ma non è quello che vogliamo tutti, essere ricordati? E se per lasciare il segno l’unica strada fosse accettare la nostra parte distopica, cosa faresti tu?
Bravissime entrambe.
Come sempre, grazie <3
Bel dialogo chiaro coinvolgente ricco di riferimenti invitanti e soprattutto fatto
con tanta intelligenza
Leggerò presto il libro
Grazie mille!