“Signora, la sua osservazione è molto giusta ma lei sa che per quanto si voglia essere scrupolosi nel seguire una teoria o un convincimento, in noi c’è sempre qualcosa di stranamente contraddittorio e assolutamente dissimile al fine che noi perseguiamo. Questo qualcosa viene ad interporsi come un filaccio dentro un preciso ingranaggio. Forse perché attraverso dubbi, lotte e superamenti ci sia concesso di comprendere come e quanto la perfezione sia lontana da raggiungersi; estranea direi alla nostra condizione umana.” (1)
C’è chi lo ammette e chi mente e a noi di Judith piace dire di essere il più possibile oneste, nonostante la continua ricerca della perfezione che siamo consapevoli essere irrealizzabile e diciamocelo: spesso pure un po’ inflazionata.
Così come noi la pensava anche Livia De Stefani, che ci accoglie nel suo mondo tappezzato di sbeccature, fatto di ritorni continui che sanno di Sicilia e di casa.
Sì, perché la scrittrice, nata a Palermo nel 1913 in una famiglia di ricchi proprietari terrieri, lascia molto presto le sua terra senza sapere quanto questa sarà importante all’interno delle sue opere.
Appena diciassettenne infatti, invitata a Roma dagli zii, fa la conoscenza dello scultore Renato Signorini e subito lo sposa, lasciando la Sicilia per una Roma in pieno fermento artistico e letterario.
Come spesso accade però, abbandonare un luogo che compare in ciascuno dei nostri ricordi, che ci ha plasmati a sua immagine, crea delle mancanze inaspettate, spesso difficilmente accettabili e impossibili da colmare, se non facendovi ritorno.
Lo stesso Leopardi ha sentito più volte il forte richiamo del suo “natio borgo selvaggio”, nonostante il forte desiderio di riuscire a lasciarselo alle spalle.
Così come il poeta della Luna, anche la De Stefani ritorna fin da subito nella sua terra d’origine per amministrare le proprietà che ha ereditato. Ed è proprio lì, in quell’angolo di Sicilia occidentale che prendono vita la maggior parte delle sue storie. Persino la sua ultima opera scritta poco prima di morire “La mafia alle mie spalle”, racconta del suo eterno far ritorno in una terra che le fa resistenza su ogni fronte, ma da cui lei non vuole e non riesce a staccarsi.

I personaggi che abitano questo suo mondo agreste composto da opposti come aridi campi bruciati dal sole ed eleganti salotti palermitani, sono spesso caratterizzati da una morbosità che perde in partenza: si tratta di soggetti che in maniera trasparente ci mostrano le falle che caratterizzano le loro esistenze, le spirali in cui senza vergogna scivolano durante la loro quotidianità, senza alcuna volontà o capacità di riscatto.
Un esempio è senza dubbio Il marchese di Fontesecca, da cui è tratto il passaggio all’inizio della nostra indagine: la vicenda del nobile e della sua famiglia è la prima delle tre che compongono il ciclo di racconto degli Affatturati, pubblicato nel 1955 e solo recentemente (2016) ristampato dalla casa editrice Elliot.

“È bene lo sappia subito, signora: queste bacinelle contengono sublimato. Da oggi loro verranno, sicure di onorarci, tutte quelle sere in cui non avranno nulla di meglio da fare. Ma noi non ricambieremo le loro graditissime visite. Se credono di accettare, dovranno sempre limitarsi a rimanere là dove sono, nella prima parte della stanza, senza oltrepassare questa linea, come dire, di demarcazione; dove noi, sia pure a distanza, saremo sempre lusingati di rivederle. Sappia, signora, che io sono un uomo affetto dalla mania dell’infezione. Così si esprimono gli altri, gli altri che non sanno quanto sacrosanta sia questa cautela, gli altri che vivono leggermente senza impensierirsi dei milioni di nemici che ci assediano da tutte le parti e da cui è facile salvarsi, basta avere un po’ di avvertenza e conoscere i sistemi per combatterli. Ma prego, prego si accomodino”. (2)
Il marchese è terrorizzato dal contatto con l’esterno, in modo particolare ha orrore dei germi che abitano le cose oltre che le persone e di come questi possono senza difficoltà contaminare lui e la sua famiglia.
Per questo motivo esce solo la notte e comunica con i suoi vicini di casa a debita distanza, trincerato dietro secchi pieni zeppi di disinfettante, situazione quanto mai attuale per la porzione di storia che viviamo ormai da qualche mese.
Sarà la figlia Matilde, attraverso i racconti delle sue due vicine di casa a interrompere per la prima volta questa vita fatta solo di uscite notturne e rumori ovattati dietro il silenzio delle case addormentate.
Scapperà infatti con un giovane siciliano, facendoci gustare per un attimo il sapore di un cerchio che si interrompe. Tuttavia, in maniera coerente con la visone della scrittrice rispetto alla condizione dei suoi personaggi, questa speranza durerà poco e Matilde ritornerà a casa, rifiutando persino l’aiuto di chi, scoperta quella che si pensa essere una prigionia imposta dal padre paranoico, le tenderà una mano per portarla finalmente sotto la luce del sole.
Il marchese così come Giuditta, la protagonista del secondo racconto della raccolta, che per l’equilibrio familiare predilige l’utilizzo della morfina e Gustavo Darò che scivola, fino a rendersi ridicolo, nella più pericolosa delle fatture: quella d’amore, sono diretta espressione di una vita imperfetta fondata su di un meccanismo inceppato che trova quasi una dipendenza volontaria in quello stesso malsano funzionamento.
È facile riconoscersi in questi personaggi che si ritrovano ad amare le trappole in cui cadono, finendo inevitabilmente sempre più in basso.
Da lettrici affamate noi di Judith siamo alla costante ricerca di briciole di onestà all’interno delle pagine che ci ritroviamo a sfogliare in questo tempo di maschere e distanze, e ciò che ci presenta Livia De Stefani riflette un mondo che, seppur appartenente a un epoca sempre più lontana dalla nostra, ci arriva come una Polaroid che ha saputo mantenere i suoi colori in maniera vivida e dettagliata.
La scrittrice ci mostra le macchie sulla tovaglia della domenica, quelle che siamo soliti nascondere sotto a piatti o ai mazzi di fiori che ci stordiscono con i loro profumi forti.
Vanno, vengono, a volte ritornano: per De André sono le nuvole, per la scrittrice le pulsioni che ci spingono dentro un loop da cui spesso è impossibile uscire, in cui tutti almeno una volta siamo caduti, magari ci siamo dentro tutt’ora; in questo caso speriamo di vederci tutti all’uscita, forse.
1 Gli Affatturati, Livia De Stefani, Arnoldo Mondadori Editore
2 Ibidem