Le Mie Parole (2) My Words, 1973
Drawing on photo. Courtesy of Kadel Willborn, Düsseldorf
Come si vive in un mondo in cui le parole sono tanto presenti nella nostra vita da perdere un po’ alla volta la loro potenza significativa? Veniamo costantemente invasi da fiumi di slogan, campagne pubblicitarie, canzoni, film. Le parole sono talmente tante che spesso si ha come la sensazione che non vogliano più dirci nulla.
Come possiamo allora ricostruire quel ponte che per una sfortunata serie di eventi è crollato?
A noi di Judith piacerebbe capirlo e per poterlo fare dobbiamo senza dubbio analizzare il lavoro di Ketty La Rocca, poetessa e artista fiorentina dalla vita breve ma piena zeppa di domande che ancora oggi si pone chi, un pò come noi, vive immerso tra le parole.
Il fatto è che bisogna fare per forza i conti con ciò che ci circonda, e il mondo che ci passa a fianco corre veloce e lo fa su mezzi diversi: parole, immagini, musica, qualsiasi forma d’arte in grado di superare i confini della pelle. Come granelli di sabbia, ciascuno di questi piccoli frammenti si va a sedimentare in parti remote della nostra persona, facendo lentamente leva su carattere, abitudini e infine sulla vita che ci costruiamo proprio a partire da quella continua guerra tra quello che arriva da fuori e ciò che invece ci è già dentro.
In un epoca in cui i bombardamenti aerei sono finiti da poco, Ketty si ritrova nel bel mezzo di una realtà in pieno fermento artistico e sociale, in cui le bombe non uccidono più ma scavano solchi nella società, affamata di cambiamento e incline a grandi modifiche strutturali.
I suoi primi studi e in un certo senso anche quelli che farà lungo tutto il dipanarsi della sua vita si concentrano sulla mercificazione della parola, con un occhio di riguardo a quanto questo incida nella vita delle donne.
L’utilizzo privo di regole della parola all’interno della comunicazione, in un sistema che si fonda su un unico canale di informazione, porta il linguaggio a perdere via via il suo mordente e in ultima analisi il suo significato.
Per questo motivo l’artista si dedica in un primo tempo alla creazione di testi poetici-collage in cui mette in luce i significati nascosti dietro alla prima lettura, stimolando lo spettatore a liberarsi da una visione unidirezionale imposta da condizionamenti esterni o da una comunicazione spesso troppo superficiale.

L’obiettivo è quello di invertire il senso della corrente utilizzando gli stereotipi creati dalla stessa comunicazione di massa.
La parola non è mai solo la parola, il gesto non è mai fine a se stesso, questo è ciò su cui concentra i suoi studi l’artista, dando un’importanza particolare alla combinazione tacita fra questi due mondi che insieme ci permettono di esistere: l’uno che influenza l’altro in un rapporto simbiotico il più delle volte imprescindibile.
Cosa succede se queste due sfere vengono separate?
La realtà è una torre di Babele in cui tutti sembrano in grado di parlare ma pochi capaci di capire cosa viene detto.
In questa prospettiva La Rocca inizia a comporre testi che volutamente sono privi di senso, con i quali cerca di dimostrare in maniera polemica l’impossibilità della lingua di essere strumento per una comunicazione reale.
Nelle sue composizioni poetiche parte da frammenti presi dal linguaggio della cronaca, delle notizie che circolano per le strade, dai giornali venduti nelle edicole.
“Dal momento in cui qualsiasi…” del 1970 ne può essere l’esempio emblematico: periodo grammaticalmente corretto non trova motivi di critica dal punto di vista della struttura ma è privo di un gancio con la realtà di chi legge. Certo, sono parole che possiedono un senso compiuto ma mancano di contenuto, dando l’illusione di un significato che in concreto non esiste.

Se la parola è un guscio vuoto allora un’ancora di salvezza può essere ritrovata nel gesto, inteso come rivincita sul primato affidato da tempo immemore al linguaggio.
Il gesto che ritroviamo nelle opere di Ketty è slegato da qualsiasi fine produttivo, al contrario diventa anche questo una posizione polemica, una rivincita rispetto a un sistema che si fonda sul nulla.
Con la serie delle “Mani”, iniziata nel 1971, l’artista usa fotografia e video. Ketty presenta un insieme di gesti, di mani tese, a pugno, unite, sovrapposte, incrociate e intrecciate con quelle di altri.

Il suo fine è quello di cercare l’espressione nel contatto, nella pelle, così da sostituire una volta per tutte la parola.
L’opera che racchiude il nucleo delle sue ricerche è: “In principio erat”, fotolibro pubblicato in due edizioni nel 1971 e nel 1975.
Alle mani si accostano frammenti testuali che messi vicini alla potenza del gesto appaiono morti e privi di capacità espressiva.
La guerra tra gestualità e verbo raggiunge infine il grado ultimo a partire dal 1973 con la serie intitolata “Mani con discorso”, in cui la parola non si accosta più come una didascalia alle immagini, ma diventa segno mentre la fotografia si trasforma in supporto per la calligrafia che va ad occuparne i contorni diventandone parte integrante.
Per questo continuo scontrarsi della parola con il gesto racchiuso in un’immagine, l’artista sceglie fotografie proprie dell’immaginario collettivo: si tratta di immagini conosciute a tutti ma rese estranee dal loro utilizzo smodato di tutti i giorni, che le riduce alla sfera del “già visto”, condannabile al dimenticatoio perenne.

La Rocca si appropria, attraverso il ricalco-trascrizione dei contorni, delle fotografie: le parole si sovrappongono all’immagine, fino a sostituirsi a essa.
Il segno rivela e allo stesso tempo cancella l’immagine.
È come se questi due mondi si annullassero a vicenda: il segno grafico, invadendo lo spazio della figura, si fa in frammenti, mentre l’immagine perde la sua immediata riconoscibilità.
In questo senso la parola e le lettere che la compongono diventano un gesto di affermazione personale e sola forma di comunicazione possibile: il ponte viene finalmente ricostruito.
“Il mio lavoro tenta di riscattare l’immagine a se stessa, materializzandone la sfida alla metafora, sfida già persa, ma in maniera dichiarata, infatti io non racconto, mi limito a ripercorrere, disegnare, scrivere i contorni con l’unico segno possibile: la calligrafia, momento alienante e parziale che si preannuncia già come storico, ma pur sempre unico, il mio unico gesto”.
Ketty La Rocca, 1938-1976