Gli spazi altri
Domenica, 21 novembre. Ecco la suoneria di Skype. Sulla superficie di tre schermi compaiono i nostri tre volti. Siamo lontani chilometri, ci salutiamo. Si può dire che ognuno di noi ora abbia quattro volti: tre piatti e uno tridimensionale, che contiene un cervello che lo ha in qualche modo convinto ad essere puntuale, a sedersi, ad accedere alla videochiamata, a salutare.
Si può dire che il volto tridimensionale, il corpo vivo e tangibile, muova le labbra nella sua stanza o nel suo studio, ma che muovere le labbra nella sua stanza o nel suo studio faccia sì che qualcosa accada nella stanza o nello studio degli altri, per tramite dei volti piatti e retroilluminati. Agli altri arrivano delle parole, e delle immagini, catturate e riprodotte da microfoni e videocamere, e da uno schermo.
Ognuno di noi, in quel momento, è dove è, cioè seduto davanti al suo computer, non c’è dubbio, ma è anche altrove. Ognuno di noi, la sera del 21 novembre, aperta la videochiamata pronuncia le parole ciao e grazie, produce onde sonore in tre luoghi diversi. Solo così il dialogo può avere luogo. È normale, lo facciamo in continuazione – videochiamarci, essere altrove. È quotidiano. È un’eterotopia. Ma cos’è un’eterotopia?
Eterotopie sono quegli “spazi differenti […], luoghi altri, una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo”, sono “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano” (Foucault, Spazi altri, 1967).
Eterotopico è, per esempio, lo specchio, perché il nostro riflesso inganna la percezione: siamo di fronte ad esso e non sulla sua superficie, e nemmeno nello spazio illusorio che si apre dietro la superficie e che però, al contempo, è un dove assolutamente reale. Eterotopico è anche lo schermo che contiene i nostri volti bidimensionali, nelle nostre stanze o nei nostri studi, ridisegnando la natura della distanza che separa i nostri corpi. Eterotopico è il cinema, che racchiude in un luogo molti luoghi, o il teatro. Eterotopica è la nave, scheggia di spazio che si allontana dal porto e scompare oltre il cerchio dell’orizzonte, nell’infinità del mare – lo dice Foucault stesso: la nave è un frammento di spazio galleggiante.
Insomma, un’eterotopia, fra le altre cose, stando al terzo principio che proprio Foucault espone alla conferenza Negli spazi altri (1967), contiene in sé la possibilità di sovrapporre in un solo luogo diverse localizzazioni incompatibili. Nella schermata di Skype, nel riquadro in alto a destra, c’è scritto Guido Mazzoni, appena al di sopra della riproduzione bidimensionale del suo volto. Indossa una camicia blu, il colletto spunta dal maglioncino. Porta degli occhiali dalla montatura nera e alle sue spalle c’è un muro bianco. Dopo una breve introduzione nostra, è Mazzoni, dalla sua stanza o dal suo studio, a prendere la parola.
[…] è solo e pensa a se stesso, alla propria immagine, alle immagini che escono fuori di noi come una cosa che non possiamo correggere o ritirare, anche se in mezzo c’è una linea, anche se in mezzo c’è una linea di sutura che si apre ogni giorno quando lo sguardo esce dagli occhi e scopre il corpo nello specchio del bagno, le gambe fra i mobili, i peli pubici, la propria vita che esiste e scivola, ogni giorno, sulla pura superficie.
Guido Mazzoni, Le immagini fuori di noi – La pura superficie

Le eterotopie
“Il saggio di Foucault, da cui deriva il concetto di eterotopia”, dice Mazzoni, “è ispirato e parte da una riflessione di Bachelard che a me interessa profondamente. La prima eterotopia che mi capita di considerare è quella ontologica fra interno e esterno. Noi abbiamo uno spazio interno, accessibile solo a noi stessi, e percepiamo uno spazio esterno nel quale sono collocati gli altri. Questo è per me il primo confine, é la prima grande eterotopia. Siamo abitanti di due spazi; in mezzo c’è il corpo che è sia interno che esterno”.
Il corpo, secondo Mazzoni, fa da “linea di sutura”. C’è un dentro e c’è un fuori. C’è quello che vediamo, quello che percepiamo, e poi c’è l’immagine che il mondo fisico proietta in noi, rifratta o distorta come un braccio tenuto per metà sotto il pelo dell’acqua; quell’immagine è personale, è solo nostra. In Barely legal, Mazzoni scrive: “Ti piace molto, nei porno, quello che si vede ai margini delle scene, quando scompare la teatralità di un’arte pensata per mostrare delle forze che, in linea di principio, agiscono attraverso i corpi ma esistono dentro, in una regione invisibile”.
Ci sono due spazi, riconoscibili anche nella poesia Quattro superfici, e c’è, nell’intera raccolta (La pura superficie), il tentativo di fare della scrittura stessa – “la linea di sutura”, il grande occhio che sfoglia gli strati sovrapposti dei due spazi, che guarda fuori e dentro, interiorizzando l’esteriore ed esprimendo l’interiore, che si fa corpo, sta sul confine, che si fa confine. Leggendo, affondiamo e veniamo ripescati continuamente da questi due spazi adiacenti in costante comunicazione.
Mazzoni dà voce a se stesso in prima persona, poi in terza e poi in seconda, e poi torna ad usare la prima. Una voce che esprime il dentro e il fuori, appunto, e lo fa muovendosi dentro e fuori, per “giocare su questo scarto percettivo – essere il soggetto ma anche l’oggetto – che è sempre traumatico e che noi apriamo costantemente da quando, ad esempio, possiamo riprodurre la nostra immagine e mandarla in giro”.
“La seconda eterotopia su cui mi capita di riflettere”, continua Guido, “è quella che si manifesta nella nostra esperienza quotidiana come passaggio dal sogno alla veglia, ed è il confine che separa coscienza diurna e coscienza notturna, coscienza desta e coscienza assopita; in forma più ampia, conscio e inconscio. A me i sogni hanno sempre colpito molto, non tanto per il loro significato in termini freudiani o psicoanalitici scolastici, ma proprio per il fatto che esistono – cioè per il fatto che noi sogniamo, che noi, per otto ore in media al giorno, dormiamo ed entriamo in un livello di coscienza altro. E in una parte di questo tempo sogniamo e sviluppiamo delle allucinazioni. Tutto questo parla della separazione tra logica conscia e logica inconscia, che è un’altra grande eterotopia. È come se la nostra coscienza fosse divisa.”
Ed è proprio l’allucinazione, nel caso di Mazzoni e della sua ultima raccolta, a farsi modalità percettiva della realtà che ci circonda, intesa essa stessa – l’allucinazione – come forma di iper-percettività. Alcuni versi segnano una perdita di controllo, un procedere per associazioni immediate seguendo la logica inconscia, oppure gravitano attorno a un momento specifico, che è quello del risveglio, del primo passaggio alla logica conscia e alla contaminazione fra questi due spazi, che stavolta sono entrambi dentro di noi, ci abitano, ospiti misteriosi, e nel loro processo di riequilibrio vicendevole fanno di noi un conflitto perenne, che è il conflitto dell’appartenenza momentanea a uno spazio o a un altro, a quello del sogno o della veglia, separati spesso da un piccolo accadimento (“Ora ha un vetro alle spalle, trova un appiglio nel muro e continua a sporgersi in avanti fino a quando il movimento del corpo lacera il sogno e lo riporta nel letto, da questo lato del vero”, dalla poesia Finestra altissima in sogno).
“Il terzo tipo di eterotopia è quello che i media, gli schermi ci hanno reso familiare. Mi interessano molto gli schermi perché appartengo ad una generazione cresciuta con un’eterotopia in casa: la televisione. Ricordo bene quando la televisione divenne una presenza di sfondo della vita quotidiana.
Ho fatto questa esperienza per la prima volta quando, a quattordici anni, sono andato in Inghilterra per frequentare un corso estivo di lingua. La famiglia che mi ospitava teneva la televisione accesa dalle otto di mattina fino a che non si andava a dormire. Tempo un anno o due e le trasmissioni mattutine si sarebbero sviluppate anche da noi: ecco, quello ha aperto un’eterotopia costante. E si è potuto notare a partire dagli anni ‘80; sia perché i canali si sono moltiplicati, sia perché gli schermi si sono moltiplicati, sia perché, di conseguenza, il tempo di esposizione alla tivù si è moltiplicato. Da quel momento in poi le eterotopie generate dagli schermi sono diventate sempre più presenti.
Pensiamo agli smartphone, al fatto che a partire da un certo momento degli anni Zero si sia cominciato a portare in tasca una serie di oggetti che contengono i nostri altri significativi. Questi oggetti ci accompagnano costantemente, interrompono la vita che stiamo conducendo lì e allora con l’inserzione di un’altra vita, di un altro luogo che non è presente ma che spesso è più importante, più attraente del luogo dove siamo. E questo ci mostra come il nostro essere del mondo sia veramente fatto di interno ed esterno, di una coscienza desta e una non desta, e di tanti spazi che si aprono, gli stessi di cui parla Foucault.
Mi interessano molto anche le finestre: mi sono reso conto che nelle cose che scrivo ci sono molte finestre e finestrini: vedere il paesaggio, il mondo, gli altri da un mezzo in movimento. Anche questa è un’eterotopia. Si è dentro uno spazio interno, fuori c’è un altro mondo che noi contempliamo attraverso la mediazione di un vetro.”
Di questo, secondo Guido Mazzoni, la letteratura contemporanea dovrebbe rendere conto: di una rivoluzione spaziale già avvenuta, del diverso significato di cui si veste la parola presenza oggi. Siamo altrove e qui allo stesso tempo. Il linguaggio letterario, che, così come la percezione e ogni altri tipo di linguaggio, è una forma di semplificazione del mondo nella misura in cui non riesce ad esaurire – perché non può esprimere e forse nemmeno comprendere – gli innumerevoli piani della realtà, dovrebbe quantomeno evolversi verso la rappresentazione di questo nuovo complicato mondo. La cultura letteraria dovrebbe cercare di complicare le strutture antropocentriche per le quali esistono solo i rapporti faccia a faccia, solo coloro che esistono qui e ora, e c’è sempre un’unità di tempo e azione, anche quando nella realtà l’unità di tempo, luogo e azione è di fatto scomparsa. La cultura letteraria deve rendere conto di tutto ciò, dice Mazzoni, pena il proprio irrealismo.

Accade qui, tra persone sconosciute, in una casa dove è entrato ignorando le linee invisibili che separano gli spazi abitati dagli altri. Accade ovunque e si propaga nei messaggi, nei telefoni, negli schermi che intravede dentro le finestre e oltre le tende. La vita normale si sposta per lasciare spazio alla scena che, tra animali di peluche e le foto di una vita non sua, crea una forma di ipnosi nella stanza. Può essere un uomo o un bambino, un estraneo o se stesso: ciò che vede lo trascende.
Guido Mazzoni, I destini generali – La pura superficie
La dissoluzione dell’Io
Il moltiplicarsi delle eterotopie e degli spazi è anche il moltiplicarsi dei riflessi, l’ampliarsi di una rete di nuovi rimandi che ci restituiscono la nostra immagine, e tramite i quali tendiamo a identificarci. Il cerchio delle nostre interazioni si allarga a dismisura, diversi piani di realtà si intersecano, e il problema dell’identità inevitabilmente si complica.
L’Io, secondo Lacan, non è che un aggregato di identificazioni, e non è un caso che lo stesso Lacan, per affrontare la questione della prima identificazione, faccia riferimento alla fase dello specchio, in cui il bambino dà per la prima volta segno di riconoscere la propria immagine riflessa. Crescendo, poi, gli specchi si moltiplicano, diverse identificazioni ci vengono da diversi tipi di interazione, l’Io si frammenta. Questo secondo Lacan.
Chi è, quindi, l’Io che dice “Io”? Chi è Io? Chi sono io? Come detto, la natura dell’Io appare a Lacan come rifratta, scomposta, plurale: Il vero Io non sono mai Io, recita beffardamente lo psicanalista.
Massimo Recalcati analizza in un suo saggio, (confluito poi in un articolo più breve dal titolo Quattro volti di Jacques Lacan sul blog Le parole e le cose, di cui Guido Mazzoni è fra i fondatori), buona parte della riflessione di Lacan attorno a quello che noi abbiamo definito come “problema dell’identità”.
Recalcati apre raccontando di un sogno in cui il volto di Lacan gli appariva scomposto, come in un quadro cubista. Quattro volti diversi, “come se la sua testa fosse quella di un alieno”. Proprio uno di questi quattro volti viene identificato come il Lacan-ironico, prima dimensione della pluralità insondabile dell’identità stessa dell’intellettuale francese. Il Lacan-ironico è responsabile proprio dell’affermazione di un Io che non ha un centro in se stesso, ma si costituisce solo attraverso una miriade di identificazioni. “L’Io non coincide con il pensiero, non è ‘cogito’, non stabilisce un’identità, non è ciò che è, non è un Uno chiuso, non è, come voleva Cartesio, la ‘roccia sotto la sabbia’, il sostrato costante e immutabile del soggetto”, scrive Recalcati a proposito.
E ancora: “quando il sembiante si sovrappone completamente all’essere – annullando ogni gioco possibile, ogni scarto, ogni discontinuità – l’essere s’irrigidisce in identità e il soggetto si solidifica nel proprio Io. Ma è proprio quando il sembiante reclama uno statuto ontologico – quando si pone come un “essere” – che abbiamo la follia come delirio dell’identità, la credenza narcisistica nell’Io, la malattia umana per eccellenza, l’Io come sintomo mentale dell’uomo.”
A prescindere dalle specifiche categorie psicanalitiche in gioco, il discorso è chiaro: è una follia pensarsi come un Uno definito e individuabile. Su questa credenza narcisistica, su questa forma di appropriazione di un centro riconoscibile in se stessi, torneremo più avanti, perché sono proprio le parole di Mazzoni e la sua poesia a darci un’altra visione.
Su un comodino, in una delle tre stanze da cui parliamo, è posato un vecchio libro d’amore. Si intitola Dimmi che mi ami, è stato aperto recentemente. Nelle primissime pagine Maria Riva, figlia di Marlene Dietrich, grande amore di Erich Maria Remarque, ci restituisce in apparenza un’immagine frammentata della figura dello scrittore tedesco.
Maria Riva lo descrive così: “Remarque assomigliava a un attore in un dramma eroico, tenuto sempre dietro le quinte in attesa dell’imbeccata. Nel frattempo scriveva libri, i cui personaggi maschili impersonavano tutte le energie che sonnecchiavano in lui ma che nella vita non si erano mai commesse e fuse in un perfetto carattere. E proprio i tratti che più in lui affascinavano, mai si sarebbero composti nell’immagine di un uomo compiuto”. Posto che Maria Riva non volesse chiaramente impostare un discorso che vertesse sulla teoria psicanalitica, la questione è questa: è possibile che una forma di incomprensione e di mistero si conservi nel momento in cui passiamo dal considerare una persona terza, come accade in Dimmi che mi ami, al considerare noi stessi? Probabilmente sì. Ma non è altresì vero che riusciamo a riconoscere un qualcosa di nostro, che ci appartiene e ci identifica innegabilmente?
Tornando alla fase dello specchio, che oggigiorno si riproduce soprattutto nella pratica del selfie e dei video che condividiamo quotidianamente, di cui siamo autori e protagonisti, Mazzoni aggiunge: “È una fase straniante e traumatica, perché ciò che vediamo nello specchio è sempre deludente. Noi, da soggetto percettivo del nostro mondo diventiamo improvvisamente oggetto, sentiamo di essere infiniti perché non ci conosciamo, mentre lo specchio ci definisce, ci guarda e ci dice ‘tu sei quella cosa lì’”.
Poi, riguardo al problema dell’identità: “una parte della filosofia contemporanea riflette sulla dissoluzione dell’Io. Si dice che l’identità individuale è la sovrapposizione di una serie di singolarità impersonali che il caso incrocia in un corpo. A questa posizione si può opporre una posizione differente: è vero che noi siamo plurali, molteplici, conteniamo moltitudini, come diceva Whitman, e ciò che conteniamo è sovrapersonale, ma ognuno di noi possiede una vita e un destino, e questa vita e questo destino saranno sempre suoi”.
E ciò è vero, spiega Mazzoni, nonostante la nostra cultura non ci appartenga, il nostro linguaggio non ci appartenga, i nostri vestiti non ci appartengano, perché se non sono prodotti in serie sono comunque fatti secondo un certo stile collettivo, sovrapersonale. Ciò rimane vero, e a riprova dell’importanza che ancora attribuiamo alla nostra esistenza individuale c’è il fatto che “non vi è una sola cultura che non ritenga la morte un problema, che non preveda dei riti funebri, dei momenti di passaggio, e che non ritenga la morte individuale un evento che va separato dal flusso. Anche se siamo molteplici, saremo sempre quella determinata vita e quel destino”.
Ciò che è sempre mio è addosso a quelli che mi siedono davanti, dentro vestiti fatti come i miei, nei gesti di questo secolo, nel mio linguaggio. I vagoni si fermano fra Bologna e il Policlinico. Io vi fronteggio pensando cose casuali, pezzi di infanzia, significanti puri; voi potete guardarmi mentre nulla mi appartiene. Eppure ciò che penso non uscirà da questa faccia, la mia vita impropria sarà mia per sempre. I New Order, nella cuffia, mimano un’adolescenza, quando le porte si aprono entra un odore di gomma e di freni. Sono quello che vedete.
Guido Mazzoni, Eigentlich – La pura superficie

Autenticità e “cazzate”
C’è una poesia contenuta nella raccolta, ed è Mazzoni a indicarcela, che contiene il significato di questa appartenenza della nostra vita e del nostro destino a noi stessi, e che in qualche modo delimita la forza espropriante delle argomentazioni orientate alla dissoluzione dell’Io.
La poesia si intitola Eigentlich, e il titolo è una citazione da Heidegger. Eigentlich è ciò che normalmente le versioni italiane di Essere e Tempo traducono con il termine autentico/autenticità, ma che letteralmente significa proprio, “cioè quello che è sempre mio”, dice Mazzoni, “e quello che è sempre mio è la mia vita, e il mio destino. Saranno sempre miei, e ciò che non posso scambiare è la mia morte”. Se anche è vero che oggi è forte la spinta intellettuale volta alla dissoluzione dell’Io, l’Io può ancora dire di avere qualcosa che gli appartiene, e sulla base di questa consapevolezza il soggetto può edificarsi. Tant’è che la poesia si chiude con una frase in cui il poeta afferma se stesso (“Eppure ciò che penso non uscirà da questa faccia, la mia vita impropria sarà mia per sempre. […] Sono quello che vedete.”, tradotto: posso dire, almeno a me, di essere qualcosa di definito: me stesso, così come lo sono).
Altro momento della raccolta in cui Mazzoni abbraccia questa dimensione di autenticità è la poesia di chiusura: Terzo ciclo. Il tema è molto personale e si percepisce, mentre ne parla, il rispetto pacato che alcuni eventi della vita richiedono quando li affrontiamo a parole.
Questo, a nostro modo di vedere, fa onore a lui e alla sua poesia, e ci basterà dire che la poesia affronta la perdita di una delle persone che Mazzoni posiziona nella prima su cinque cerchie di persone (“Le persone che significano qualcosa, / pochissime, immobili nel tempo – / i genitori interni, B, gli amici fissi, / i nemici fissi, coloro cui rende conto mentalmente.”), per leggerla sotto la luce che ci interessa: quella dell’appartenenza. “Ci sono alcune persone che non se ne vanno nel corso della vita, e due di queste sono i genitori. Qualunque cosa si possa pensare dei propri genitori, qualunque giudizio si possa dare, qualunque siano le passioni che si provano nei loro confronti, i genitori sono l’insostituibile per definizione. E, appunto, lì [in Terzo ciclo] si tocca un momento di insostituibilità, di appartenenza. Quello è un momento di appartenenza.” Quello, per Mazzoni, è un momento suo, solo suo, che fa di lui la persona che ci parla attraverso lo schermo.
C’è un’altra poesia, intitolata Quattro superfici, in cui Mazzoni cita direttamente un termine heideggeriano – Gerede -, e lo traduce con “cazzate”. Quella di Guido è un’esagerazione cosciente; la traduzione propria del termine rimanda a quella che in inglese chiamiamo “small talk”, alla “chiacchiera”, ovvero a quel vuoto che si crea a volte durante un dialogo, quando si raccontano aneddoti che, appunto, rimangono in superficie.
Questo è un altro nucleo della raccolta: la chiacchiera. I testi contengono molte persone che parlano di cose insignificanti per chi scrive, e spesso anche per chi, nel testo, parla, e parlando si scherma. Persone molto diverse fra loro, quando si incontrano in uno spazio pubblico e non hanno una conoscenza intima pregressa, cioè appartengono alla seconda o alla terza cerchia, alla fine finiscono per parlare di cose sanno essere approssimative, distanti dal centro del loro interesse, sfocate.
Un altro senso che Mazzoni conferisce al termine fa riferimento al fatto che “quando sentiamo gli altri parlare dei loro interessi, spesso quello che loro dicono non ci riguarda, non ci tocca, non ci significa niente, ci sembra una cazzata”.
Un’altra grande eterotopia della vita contemporanea si genera nei luoghi pubblici, o sui treni, prima che inventassero le vetture-silenzio (“che io prendo religiosamente, sempre”): è l’ascolto delle conversazioni altrui, al telefono per esempio. “Come stai? Sono su Milano. Ma ha mangiato? Ma allora ci si vede con Giovanni? La conversazione altrui ci suona il novanta per cento delle volte come una sequenza di cazzate.” Ovviamente, se ci telefonassero, le nostre parole suonerebbero esattamente allo stesso modo alle orecchie di chi ci ascolta. “Questo è l’elemento della cazzata, ecco”, che contribuisce a creare uno “spazio cavo” fra il soggetto e tutte le cose che lo circondano, o a prenderne coscienza. Ancora una volta, è una questione di dentro e fuori.
Secondo Heidegger la chiacchiera, il Gerede, è il nostro modo di perderci completamente nell’ente, di perderci, in quanto il Gerede rappresenta la sola possibilità del comprendere medio e in esso il linguaggio perde la sua caratteristica più autentica di mirare a un qualche tipo di verità, avvolgendosi su se stesso. Da qui la sua attenzione rivolta alla dimensione taciuta del linguaggio: il silenzio. Ci sarebbe, dunque, secondo Heidegger, un livello del linguaggio che la buona filosofia e la buona poesia sono in grado di dischiudere, passando da uno stato di afasia che arriva ben presto a sdoppiarsi, a divenire un’irrefrenabile loquacità. La poesia di Guido Mazzoni, a nostro modo di vedere, è esattamente questo: buona poesia che porta il linguaggio e il livello del discorso su piani altri, che affronta la realtà a mani nude, ne illumina diverse porzioni raccontandone l’ambivalenza e la complessità.
E mentre guardi le riviste,
Guido Mazzoni, Terzo ciclo – La pura superficie
le vite dei calciatori in mezzo alle altre larve
nella sala della chemioterapia,
sappiamo entrambi che non vivrai,
sappiamo che non servono parole, perciò
guardiamo la stanza o parliamo di Antognoni
o di questo muro fuori filo, che è fatto male e ti disturba,
hai lavorato nei cantieri, è stata questa la tua vita.
Ma oggi non importa, siamo felici di esserci ancora,
di stare insieme qui, i maschi non piangono, le parole non contano.

Dopo circa quaranta minuti, i nostri volti bidimensionali e retroilluminati si arrestano. Abbiamo detto tanto, abbiamo ascoltato. L’immagine sembra freezarsi e c’è qualche attimo di silenzio. Poi ci ringraziamo per la chiacchierata, chiudiamo Skype, torniamo ad avere una faccia soltanto, dal nostro lato dello schermo. Sentiamo, forse, di aver avuto un significato per gli altri in quella manciata di minuti in cui siamo stati insieme. Quello che ci siamo detti ora fa parte di noi. Chiudiamo il computer, laviamo i denti, andiamo a letto. Chissà se sogneremo, stanotte.
In copertina: Lettrice in treno – Edward Hopper, 1965