I personaggi pirandelliani viaggiano costantemente alla ricerca di una dimensione diversa e più confortevole. La loro fuga ci è utile per comprendere quanto questo concetto sia strettamente legato a quello della lontananza, una lontananza consapevole dell’esistenza di una realtà altra che nel presente si può solo immaginare.
“Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa” (Il fu Mattia Pascal).
Siamo in fuga continua. Da qualcosa, verso qualcosa. Stringhe di tempo ci si allacciano alle caviglie, le trasciniamo come nastri filanti, noi che siamo il centro del nostro tempo, il punto in cui il nostro passato e futuro si raccolgono, in cui proiettano le loro ombre, le loro luci.
C’è chi dice, ormai, che il tempo non esiste, e lo dimostra fisicamente – formule, equazioni riferite ad eventi microscopici in cui passaggi matematici e semplificazioni portano la variabile t a scomparire, ad annullarsi – ma ciò che conta qui è che lo sentiamo esistere, e soprattutto, che non sappiamo più scinderlo dallo spazio. Vediamo il sole sorgere e calare in cielo, i germogli aprirsi e fiorire sui rami. Percepiamo un mutamento. Ci sono quattro dimensioni, una è il tempo, e il tempo si plasma e si distorce come una sagoma di plastilina. Potrà anche non esistere, ma i germogli erano germogli ieri, e oggi sono fioriti.
Della fuga come moto materiale e interiore, questo movimento quotidiano eppure occulto che ci appartiene, oggi, in quanto umani e in quanto giovani sradicati, in costante movimento, senza casa e senza radici o con radici talmente profonde da occupare lo spazio sotterraneo di interi continenti, abbiamo parlato con Giorgio Ghiotti.
Molte poesie e racconti di Giorgio trattano il tema della lontananza e del ritorno, del riavvicinamento. Sono storie di distanze, nel senso più ampio del termine. Faulkner scriveva: “Il passato non è morto e sepolto. In realtà non è nemmeno passato”, c’è uno spazio in cui i tempi si comprimono, e quello spazio siamo noi, ma non solo. Quello spazio siamo noi e le nostre narrazioni, i racconti. La letteratura. Abbiamo percepito nella scrittura viscerale di Giorgio una forza remota, primordiale, che ci è parsa avere a che fare con tutto ciò. Con l’organizzazione del tempo. Con il sentimento del tempo, se vogliamo. Di un passato e di un futuro che fuggiamo e insieme ci fugge dalle mani, che tentiamo di cristallizzare e insieme tenta di cristallizzarci.
[…]
Presto o tardi se ne vanno tutti, questo l’ho imparato, non ci si può far niente. Funziona come con le madri, c’è l’amore viscerale e poi la ribellione e la fuga, è il taglio di un cordone ombelicale che prima nutre e poi non nutre già più, inietta veleno. La periferia è una madre che partorisce e consegna alla vita, eppure la vita vera è là fuori, qui arriva solo la vita riflessa, una promessa che all’ombra del gazometro non viene mai mantenuta. […]
Giorgio Ghiotti – Erbacce (Gli occhi vuoti dei santi)

Nella scrittura, dice Giorgio, “ci sono due movimenti paralleli. Da una parte la consapevolezza del voler tenere separati i tempi. Perché se separi i tempi vuol dire che ordini, e quando ordini, gerarchizzi. La gerarchia non funziona soltanto verticalmente, ma anche orizzontalmente, all’interno di una disposizione cronologica, che è anche una delle cose importanti a livello di struttura, romanzesca e non.
Quindi, da una parte c’è la gestione gerarchica dei tempi, e dall’altra, un po’ per istinto, un po’ perché la scrittura lo impone, c’è un movimento contrario che tende a comprimere tutti i tempi insieme, a ‘presentificare’ ogni tempo, il che vuol dire anche il futuro. Nella testa di chi scrive, le cause e gli effetti si confondono; non sempre si possono spiegare razionalmente opere e omissioni, secondo me, in un romanzo, proprio come accade nella vita.”
Nella prefazione alla raccolta di poesie Alfabeto Primitivo (Perrone, 2020) di Giorgio Ghiotti, Chiara Valerio scrive: “Solo che la giovinezza di Ghiotti, nonostante egli la abbia, è inventata. È una giovinezza ferma all’adolescenza. E da lì, quasi con prepotenza, non si muove. È una giovinezza che somiglia a quell’eternità che solo il passato garantisce.”
L’eternità che solo il passato garantisce.
“Presentificare” i tempi nel gesto della scrittura significa questo: aprire a un’eternità in cui tutto è immobile, un nucleo primario, dove immobile non vuol dire morto o decaduto, ma sempre, costantemente vivo e ribollente. Quando in Erbacce Giorgio Ghiotti parla della periferia come “una madre che partorisce e consegna alla vita”, fa riferimento a quanto stiamo dicendo. All’abbandono della culla, della giovinezza pura, per andare nel mondo, ma allo stesso tempo della presenza insopprimibile in noi, quando saremo nel mondo, nella città lontana dove c’è la “vita vera” e non solo la “vita riflessa”, della periferia, della culla come luogo interiore, come passato che non muore mai, e anzi, piuttosto si rimescola.
Questi sono i due tempi, i due movimenti paralleli di cui parla Giorgio, che risuonano nel racconto: il passato, la culla abbandonata e la consapevolezza della periferia come luogo lontano, una volta che si sarà usciti là fuori, nel mondo, ma anche il suo costante risuonare nel presente.
Il passato ‘informa’ il presente, è la materia di cui il presente si compone, ecco perché non lo si può considerare mai davvero una stagione conclusa.
[…]
Quando avevo quattro anni scappai da mia madre, al mare, lei stava persa in certe chiacchiere con delle amiche e io pochi passi più indietro con altri bambini […]. Un’ora dopo mi ritrovò sul gradino di casa, la retina sprofondata nel petto, mi diede cento baci sulle labbra. Io la baciai invece sulle palpebre, sugli occhi, per non vederli. Ero stato io a scappare da lei o lei ad abbandonarmi? Forse si trattava di reciproco bisogno di fuga. […]
Giorgio Ghiotti – Sacra famiglia in fiamme (gli occhi vuoti dei santi)

Il passato lascia segni. Il presente è la statua di Giulietta a Verona, consumata dal troppo toccare, è la conca scavata da uno shrapnel esploso durante la guerra. Il passato e il tempo si spazializzano, cioè stanno nello spazio, sono tutt’uno con esso – le quattro dimensioni sono inscindibili.
Giorgio, facendo riferimento a Il catalogo dei giocattoli di Sandra Petrignani (Beat, 2013) – in cui l’autrice “racconta dalla A alla Z, in forma di abbecedario, i giochi di infanzia, della propria e del figlio, una sorta di negromanzia, di rievocazione”, ci suggerisce che la scelta, per la lettera C, della Casa di bambola, sia rappresentativo dei segni che il tempo lascia, e di come questa idea entri in letteratura.
Dice Giorgio: “quando Sandra Petrignani arriva alla C sceglie come gioco la casa delle bambole, e lo presenta come il gioco più bello e magico del mondo, perché già il nome è una finzione: dalla casa la bambola è assente, ma all’interno della casa ogni oggetto – il lenzuolo scoperto sul letto, la spazzola lasciata sul mobile – suggerisce che qualcuno è passato di lì: è l’immagine stessa della letteratura, una dimensione di fantasmi, che non avendo corpo possono attraversare le dimensioni e i tempi.”
Quel letto e quella spazzola sono il lascito di una presenza, che è stata reale presenza in altri tempi, e ora è assenza, eppure ci racconta qualcosa. La finzione è reale, i fantasmi sono lì, il passato che proietta le sue ombre e le sue luci. I fantasmi non hanno corpo, come dice Giorgio, ecco come possono muoversi nel tempo e arrivare fino a noi, così come i personaggi dei libri, con cui condividono la stessa natura.
Non per questo i fantasmi sono meno reali dei corpi. Il passato lascia segni e il presente è un letto disfatto in miniatura. Non sono reali, adesso, le mani che hanno consumato la statua di Giulietta, non sono reali, adesso, gli shrapnel, e non c’è la bambola, ma la statua ha perso il colore, le conche sono lì, così come le carcasse arrugginite dei proiettili, e il letto della casa di bambola è disfatto.
Muoversi nello spazio è muoversi nel tempo, “avanti nel tempo non possiamo andare, in barba a tutte le logiche cinematografiche”, dice Giorgio “ma negli spazi possiamo tornarci e risemantizzarli”. “Io vivo a Milano”, aggiunge Giorgio, “ma ogni volta che torno nella mia camera d’infanzia a Roma torno alla matrice dell’infanzia. Tutto suggerisce che tu sia passato di lì, tutto è ancora fermo a quel momento, ai tuoi sei anni, o ai tuoi quattordici, ma tu sei andato avanti, ti sei evoluto, è una sorta di sincretismo delle storie che diventa espressione di quella che è la letteratura: un continuo evocare fantasmi sulla pagina”.
[…]
La lontananza non ci fa paura,
Giorgio Ghiotti – Lontananza (Alfabeto Primitivo)
non si misura per noi in spazi e
terreni abitati, ma in trasmutare
di lingue al passo al valico al confine
là dove la cerva stacca dalla roccia
e le pietre non hanno più memoria.

In Sono il fratello di XX, di Fleur Jaeggy (Adelphi, 2014), si dice che gli oggetti sono vendicativi. Gli oggetti sono ciò che il passato ci lascia, i detriti che rimangono nel letto del fiume prosciugato e, per dirla come Giorgio, “ci investono con tutto il loro carico emotivo, come un dolce ricordo o un tremendo ricatto”, ci chiamano a un ritorno impossibile, perché, allo stesso modo in cui percepiamo diversa la nostra camera d’infanzia, quando ci ritorniamo, anch’essi sono diversi quando li osserviamo, quando ci capitano per mano. Perché sono cambiati gli occhi che li guardano.
“So bene che ogni ritorno non è indolore, e soprattutto che la volontà del ritorno implica sempre una mutazione nel mezzo” e secondo lui “non puoi fare ritorno a qualcosa sperando che quel qualcosa si palesi davanti a te così com’era, perché sei tu a essere cambiato. Altre speranze, altre paure, nuova luce a illuminare le cose”.
Il più delle volte il tentativo di riportare in maniera fedele il ricordo che un oggetto ci evoca è fallimentare. Ci si riesce solo chiudendo un occhio, solo dimenticandosi del resto. Come dice Cvetaeva: “ti innamori di un particolare e tutto il resto lo fai coincidere”. Ecco, continua Giorgio, “quel particolare è tutto ciò che possiamo provare a salvare nel tempo.”
“E in realtà,” conclude, “anche questo è un doppio movimento. Di fuga e di enorme attrazione verso il punto da cui sei fuggito.” Si tratta del grande conflitto fra la conservazione o il rifiuto del passato al prezzo di annullare il presente, e l’accettazione dell’invasività del presente, della sua onnipotenza. Solo dal punto in cui ci troviamo ci è permesso di guardare il mondo, ma la letteratura fa questo: ci dà modo di vedere più in là, più oltre.
[…]
deve andarsene questo pensiero
Giorgio Ghiotti – Alfabeto primitivo
che m’ingombra la stanza di radici
darmi la tregua di una ricreazione
posarsi sul tavolo in cucina
guardarmi che lo guardo e sbalordire
davanti ai tuoi occhi così strani
due pozzi in cui lanciai la monetina
poi dirò solo ciao, addio
mia cura primaria, mia ossessione
mio tanghero amore ragazzino.
il cerchio si chiude solo nella luce
una tenda sbiadita, persiane chiuse al sole.
Segna il luogo dove una storia
finisce e si comincia a vivere.

“È qui che entra in gioco il ruolo del testimone”, prosegue Giorgio citando Teresa Ciabatti, che in un’intervista spiega come sia avvenuta la sua formazione da scrittrice: lei non si è mai sentita protagonista delle storie, ma sempre testimone. Il testimone, secondo Giorgio, “si trova in una posizione scomoda, da cui può voler fuggire perché non sempre assiste ad accadimenti idilliaci o piacevoli. Ma se non testimonia lui, chi lo farà?” E soprattutto, in quale peculiarità dell’osservazione risiede l’autenticità di una testimonianza, posto che la letteratura stessa – la buona letteratura, almeno – è una forma di testimonianza?
Lo sguardo del testimone non può essere distratto, non può maturare senza considerare tutti gli altri sguardi, puntati su di lui o persi altrove, perché sono tutti questi sguardi, insieme, che ci permettono di vedere, e vedere non significa necessariamente comprendere, ma compiere un movimento che ci porti al di fuori del nostro baricentro e che tenda a tutte le più assurde angolazioni.
Ripensando a Sacra famiglia in fiamme di Ghiotti, ci è venuto in mente il film dei fratelli D’Innocenzo, Favolacce, e i suoi protagonisti: bambini che con i loro occhi “vergini” assistono alla violenza dell’età adulta. Invidia, possessività, disattenzione. Si frantuma la loro innocenza, subiscono il gioco dei grandi. Abbiamo domandato a Giorgio se nella sua scrittura esiste questo nucleo, un’infanzia o un’adolescenza invase dall’età adulta sotto forma di disillusione imposta, e lui ci ha raccontato la sua visione: non si tratta di un’espropriazione dell’infanzia e della sua innocenza, perché non c’è innocenza nell’infanzia, c’è solo purezza.
Quando gli è stato chiesto di occuparsi della traduzione di Peter Pan per Bompiani, il più grande cambiamento che Giorgio e Leonardo Laviola (cotraduttore dell’edizione) hanno deciso di apportare riguarda l’ultima frase del libro, che ribalta il concetto di infanzia e l’idea di tutto quello che è l’universo infantile. Gran parte delle edizioni precedenti traducevano la frase in questo modo: “finché i ragazzi saranno felici, innocenti e senza cuore”, e focalizzandosi sul termine innocenti, Giorgio ci ha inviati a notare quanto in realtà i bimbi sperduti (che, di nuovo, in inglese sono qualificati come lost, traducibile anche con perduti) innocenti non lo siano affatto, perché è vero che l’infanzia corrisponde al momento prima del giudizio, ma è anche vero che “definire i bambini sperduti come innocenti significherebbe negare che abbiano il pugnale costantemente sporco di sangue”. Altro cambiamento significativo è stata la sostituzione del termine felici con allegri, perché l’allegrezza, detta alla Natalia Ginzburg, è ben diversa dalla felicità. “Allegri, puri e senza cuore”.
“Sono puri”, continua Giorgio, “perché la crudeltà e la bontà sono in loro mero istinto. È qualcosa che viene ben prima del bene e del male, è la condizione dell’Eden prima della caduta. Nell’infanzia e nella giovinezza c’è sempre qualcuno che ti perdona per ogni errore che fai, è quando smettono di perdonare i tuoi errori che l’infanzia finisce”.
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.[…]
Fernando Pessoa – Autopsicografia

Giorgio Ghiotti in una sua poesia parla di lontananza in prima persona (La lontananza non ci fa paura / non si misura per noi in spazi e / terreni abitati, ma in trasmutare di lingue), ma anche in altri suoi scritti, di rimando, si percepisce il movimento che il poeta ha compiuto per poterne poi scrivere, un movimento proprio di allontanamento, che permette prima di rammendare, interiorizzare e poi dire, così gli abbiamo chiesto espressamente cosa sia per lui la lontananza, come la sente sulla sua pelle e come entra in ciò che scrive.
“Raffaele La Capria diceva proprio questo: bisogna sempre fingere il sentimento quando si scrive”, esordisce Giorgio, “il che non significa falsificarlo, ma l’unico modo per renderlo su carta è distaccarsene, farci pace e riprodurlo a freddo”. Pessoa porta lo stesso argomento, giocando sulla contraddizione (arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente) e anzi aggiunge qualcosa, uno spunto: la poesia e la scrittura sono un atto più mimetico che creativo (e ovviamente questa è una provocazione); ma Pessoa, come La Capria, vuole dirci che non si scrive del mare mentre si naviga, se ne scrive una volta a terra, fingendo di essere ancora lì, sulla nave. In questo senso la finzione è un atto creativo, come avviene nel teatro.
È per questo motivo, ci rivela Giorgio, che non crede troppo nella cieca forza dell’ispirazione, nel prendere carta e penna e buttare giù due versi, quando si tratta di poesia, “perché anche la poesia ha una sua tecnica, sebbene nella tecnica non si esaurisca e continui a conservare quel mistero nucleare che nessuno riuscirà mai per fortuna a spiegare. Del resto, quando si scrive una poesia il più sorpreso è sempre il poeta.”
La lontananza in senso proprio, come tema, entra nell’orizzonte di riflessione di Giorgio quando, ancora bambino, inizia a leggere “i libri dei grandi”. “Ero andato a dormire da mia nonna, peraltro collega di Giorgio Caproni alle scuole elementari, a Roma, e avevo dimenticato a casa il mio Geronimo Stilton. Così sua nonna si propone di leggergli uno dei libri che aveva in casa. “Quella storia era Valentino di Natalia Ginzburg, e io sono rimasto fulminato da quel racconto. Ogni volta che mi sono male innamorato, poi, mi sono sempre male innamorato di ragazzi alla Valentino. Riccioluti, spavaldi e che non si guardano mai indietro, perché per me erano Valentino”.
Ma c’è nell’opera tutta di Natalia Ginzburg, dalle prime alle ultimissime opere in prosa, un’idea della lontananza a cui quella di Giorgio si approssima. “Ma in trasmutare di lingue”, scrive Ghiotti in Lontananza, “dove le lingue non sono intese come lingue straniere; è un vero e proprio sistema di grammatiche che sta più all’origine, è un sistema di conoscenza affettiva dell’altro”. La prima produzione di Ginzburg, infatti, che ha il suo culmine in Lessico famigliare, dice Giorgio: “si riappropria di quelle parole-cerniere che fungono da elemento di coesione delle persone, di vicinanza. Si tratta di avere un lessico comune,” una grammatica condivisa che si sottenda all’intrecciarsi degli affetti.
“Succede qualcosa, poi, nei romanzi di Natalia Ginzburg e nella realtà: c’è la crisi della famiglia, ci sono gli anni ‘60 e i ‘70, e lei arriva a scrivere libri in cui anche gli appartenenti a una stessa famiglia non fanno più parte, come lei dice, di una tribù”, dice Giorgio, “e non riescono più a comunicare, non perché non si capiscono, ma perché non hanno più una grammatica comune nella quale riconoscersi.” Una grammatica emotiva.
La poesia di Giorgio, quindi, sta a significare che la lontananza è una questione di grammatiche condivise, e lui stesso ci spiega che “se non ti sforzi di parlare con gli altri muovendoti su un terreno di grammatiche condivise, viene meno la possibilità stessa di un dialogo. Non esistono sentimenti fuori dalle grammatiche, e anche i sentimenti devono avere una loro grammatica, perché non sono istintuali: sono culturali, e tutto ciò che riguarda l’apprendimento di una cultura passa attraverso grammatiche condivise.”
E questa fu l’intuizione di Heiddeger: individuare la necessità di creare un mondo nuovo, accorgendosi che si è ormai sfilacciato questo nostro mondo costruito sulla metafisica di Platone. Ciò detto, un mondo nuovo, dice Giorgio riferito ad Heidegger, “lo dobbiamo creare attraverso un’altra lingua: la lingua dei poeti, perché solo i poeti possono dare nuovo senso alle parole, e possono creare connessioni inedite. Ed è esattamente ciò che fa il più grande genio della letteratura del ‘900, cioè Tolkien: capisce che per creare nuovi mondi devi creare una nuova lingua, una nuova grammatica. Ecco da dove nasce l’elfico.”
Pessoa ci dice di essersi distrutto per creare la sua grammatica, esteriorizzandosi al punto da non esistere più dentro sé, se non esteriormente, e ne “Il poeta è un fingitore”, la lontananza di cui parliamo, il passato e il presente, l’anima che brucia rimembrando ma dopo aver smesso di bruciare, tutto, è suggellato in quei versi, in un poeta che arriva a fingere persino il dolore che davvero sente, un dolore da cui non c’è fuga, un dolore che è stato paralizzato al punto da non esistere più anche quando lo si soffre, perché la sua nuova forma, la sua nuova vita, saranno comunque lontane da lui.
Chiara Valerio scrive del “fingere malinconia” di Giorgio Ghiotti e lui ci dice che quando la riprende per portarla su carta, immediatamente diventa di nuovo reale, così la fuga, anche per il nostro giovane poeta, non è una fuga dal passato o dalla malinconia, la finzione non è fuga ma distacco necessario, e Giorgio Ghiotti fugge unicamente dall’idea che esista una sola possibilità di finale, nei suoi versi, nelle storie, così come nella vita. Per questo motivo, noi non daremo una conclusione a questo dialogo ricco di stimoli e possibili riflessioni ma lasciamo a voi, a Giorgio, e a noi, la possibilità di pensare alle nostre e vostre vite, e immaginare ve ne siano almeno cento.
In copertina: Sfuggendo alla critica – Pere Borrell del Caso, 1874