
Architetto, pedagogo, sceneggiatore, drammaturgo e regista, un’artista multiforme che ha fatto della tradizione e dell’intuizione i suoi punti di forza. Gabriele Vacis ci racconta alcune delle tappe fondamentali della sua carriera, dal debutto a teatro alle trasmissioni televisive fino alla nascita dell’Istituto delle pratiche teatrali della cura della persona.
1. Qual è la definizione che meglio la rappresenta?
Quella di regista, perché abbraccia tutto, essendo una professione giovane comprende anche la pedagogia, quella che metto in pratica nella conduzione degli attori al Teatro Stabile di Torino. Sono laureato in architettura, e fare il regista significa allo stesso modo organizzare il tempo e lo spazio, di fatto continuo a fare l’architetto.
Alcune specificità sono venute fuori in momenti diversi. Una cosa dava forma all’altra. Facevo teatro da quando avevo otto anni, ho fatto il primo spettacolo a quattordici e mi sono laureato a ventiquattro, fino ad allora non avevo immaginato di poter fare il teatro come professione. Quando studiavo architettura la mia giornata era divisa tra lavoro, studio, e teatro, avevo poco tempo per dormire.
È in quel periodo che ha preso forma l’idea di Teatro che ho oggi.
Il teatro è un mezzo per cambiare il mondo, per renderlo vivibile, se avessi fatto l’architetto avrei cercato di perseguire lo stesso fine.
Scrivere è un’altra cosa che ho sempre fatto. La prima volta che mi è capitato, eravamo piccoli e stavamo preparando uno spettacolo, a un certo punto mi sono reso conto che non bastava improvvisare, mi è venuto in mente un passo del libro Cuore, l’ho tirato fuori e l’ho adattato, è stata una scoperta quando l’abbiamo provato in scena.
Sono un soggetto a rischio, fatico nel ripetere cose che ho già fatto, mi annoia seguire un percorso prestabilito, mi occupo di qualcosa fino a quando mi tiene sul filo, poi ho bisogno d’altro, e lo vado a cercare. A un certo punto, ho avuto bisogno di raccontare cinematograficamente, l’ho fatto con due film. Dipende anche dalle circostanze, sto in ascolto del mondo, a seconda di quello che sento mi regolo. Così spesso cambio direzione.
2. Quando ha capito che il teatro poteva diventare una professione?
Nel 1981 ho frequentato L’international School of Theater Anthropology, una scuola di regia fondata da Eugenio Barba, siamo stati due mesi a Volterra in una residenza che ospitava cinquanta allievi e cinquanta maestri, tra cui Grotowski, Dario Fo, e altri. Per fare questa esperienza mi ero licenziato dallo studio dove lavoravo. In quello stesso anno nasce il Laboratorio Teatro Settimo, Teatro Stabile di Innovazione per le Attività di Ricerca.
Nel 1982 ci rendemmo conto che poteva diventare una professione, e successe nel momento in cui mettemmo in scena Citrosodina.
Ai tempi vendevamo lo spettacolo a cinquecentomila lire, a dirla tutta se ce ne davano trecento andava bene lo stesso, una volta abbiamo accettato anche in cambio di una cena.
Un giorno riceviamo una telefonata dal Teatro di Roma, nella quale l’organizzatore ci chiedeva venti repliche, venti per cinquecento mila faceva dieci milioni, non ci potevamo credere, e non dovemmo neanche trattare.
Quello per noi fu un punto di svolta, facemmo una tournée con sette/ottocento repliche e capimmo che potevamo vivere di quello.
Abbiamo fatto spettacoli che hanno girato il mondo, le cose andavano bene. Nonostante questo, mio padre, quando ho compiuto trentacinque anni, mi ha regalato un tecnigrafo, nella speranza che tornassi a fare l’architetto. Col senno di poi, posso dire che la ragione per cui ero convinto di dover fare l’architetto era perché lo voleva lui. Credo che se non avessi incontrato Laura Curino, Antonia Spaliviero, e gli altri miei compagni del Teatro Settimo, la mia vita sarebbe andata diversamente.

3. Con Elementi di struttura del sentimento, acquista maggiore concretezza la poetica del raccontare propria di teatro settimo, uno spettacolo che prende come riferimento Le affinità elettive di Goethe, dove la parola viene spesso sostituita da oggetti e azioni per raccontare eventi ed emozioni. Da dove nasce questa idea, cosa vi premeva raccontare?
L’idea era quella di progettare un nuovo mondo.
Le affinità elettive di Goethe è un romanzo che racconta della costruzione di un parco, un progetto assurdo poiché non vi è alcuna possibilità di vederlo finito, in quanto un parco è compiuto solo quando gli alberi sono cresciuti, i meravigliosi parchi di cui godiamo oggi sono stati impostati almeno nel 700/800.
Mi è sembrato un gesto di generosità straordinario, si dice che “lo scopo della nostra vita è quello di restituire il mondo migliore di come l’abbiamo ricevuto”. Costruire un parco era un modo per realizzare questo.
Una volta progettato, ci eravamo chiesti, mentre i personaggi principali (Carlotta, Eduardo, il Capitano e Ottilia) erano impegnati nelle loro circonvoluzioni sentimentali, chi costruisse materialmente il parco, così abbiamo pensato di raccontare la storia dal punto di vista delle serve.
È stata una forzatura perché all’inizio dell’800 gli uomini avevano il valletto, ma nel gruppo Teatro Settimo avevamo più attrici donne, così ci siamo adattati. Con Elementi abbiamo vinto tanti premi.
Prima avevamo fatto Esercizi sulla tavola di Mendeleev. Drammaturgicamente avevamo bisogno di iniziare da zero, da qui l’idea di costruire una realtà a partire dalla tavola degli elementi che costruiscono la materia, partivamo dalla scienza per raccontare i sentimenti umani.
Dopo il successo di Citrosodina, come gruppo rivelazione del teatro ragazzi, avevamo ricevuto tante richieste per la nuova rappresentazione che dissomigliava in tante cose a quella precedente: era impegnativa e aveva una serie di elementi che disturbavano il quieto vivere del teatro ragazzi. Con Kanner Puro, prima ancora del debutto avevamo già venduto ottanta repliche, la maggior parte delle quali venne cancellata subito dopo la prima messa in scena.
Raccontavamo la storia di un bambino autistico con exitus finale, lo spettacolo fu difeso da critici e studiosi, ma nei fatti venne successivamente censurato. Nel 1982 con la dicitura Kanner, ci si riferiva ai disturbi dello spettro autistico, i quali venivano definiti puri, quando aderenti alla molteplicità dei sintomi.
La nostra idea era che l’autismo fosse una forma di difesa (positiva) dal bombardamento di informazioni che la società iniziava a ricevere. Erano gli anni in cui iniziava la mutazione (che tutt’oggi viviamo), Steve Jobs e Bill Gates, miei coetanei, apportavano innovazione al sistema informatico modificando irreversibilmente i linguaggi comunicativi.
L’idea ci era venuta osservando Mirco, un bambino di sei anni, mentre utilizzava uno strumento nuovo: il telecomando, che rappresentava tutte le possibili scelte: informazioni, storie, format differenti. “E adesso cosa scelgo?” si chiedeva.
Il telecomando è presente anche in Citrosodina, che racconta di un bambino che prima di andare a dormire mangia troppo e terrorizzato dall’idea di fare brutti sogni, utilizza il telecomando per comandarli a distanza.
4. Ha promosso e diretto festival negli anni ’80 come Assedio e Viaggio d’Italia, cosa le è rimasto di questa esperienza?
Ero curioso, volevo comprendere i meccanismi di produzione delle cose, infatti per cinque anni ho fatto il direttore di un teatro d’opera.
Organizzare eventi significava trasformare urbanisticamente i territori, con Assedio volevo valorizzare le aree degradate che circondavano il centro della città. Utilizzavamo il teatro come strumento urbanistico. Ho acquisito la consapevolezza di voler fare un lavoro che creasse comunità e che allo stesso tempo fosse al servizio di questa.
Il teatro come servizio sociale è una idea spesso calpestata, che nasce con Paolo Grassi e più in generale con la tradizione del teatro italiano.
I processi produttivi non sono slegati tra loro. Una volta uno studioso di teatro, Ferdinando Ottoviani, mi disse “riesci a fare delle cose solo se sei produttore di te stesso”. Possiamo vederlo anche nel cinema, se non puoi influenzare il sistema produttivo, ne sei in balia, e questo porta a una fortissima involuzione, la separazione dei ruoli organizzativi, amministrativi e delle mansioni artistiche.
5. Nel 1988 inizia a insegnare alla Paolo Grassi. È stata una esperienza nata da un bisogno personale o dal caso?
Ho iniziato a insegnare per caso. Nel 1987, il neodirettore della Paolo Grassi, Renato Palazzi, precedentemente critico del Corriere della Sera, venne a vedere Elementi della struttura del sentimento, e al termine mi chiese se volessi insegnare alla scuola, gli chiesi se fosse legale, perché non mi ero diplomato lì, mi rispose di sì e che non cercava figure che avessero fatto un percorso istituzionale. Aveva un’idea di rinnovamento per la scuola da attuare anche grazie alla varietà degli insegnamenti.
Ero spaventato, gli avevo espresso fin da subito i miei dubbi, avevo già fatto degli spettacoli, frequentato l’ISTA, ma non sapevo bene cosa potessi insegnare a dei ragazzi, all’epoca avevo pochi anni più di loro. Pensai a uno spettacolo, e glielo proposi. Lui mi disse che avrebbe voluto proprio quello.
Proposi alla classe di attori una novella che amavo molto: Festa di nozze di Fitzgerald. Erano giovani promettenti, c’era Sergio Romano, Max Speziani, Renato Gabrielli; lavorammo a una riscrittura e ne facemmo uno spettacolo.
Dopo quell’esperienza avevo capito che potevo cominciare a costruire delle pratiche e a interrogarmi sul rapporto pedagogico.
L’anno dopo mi fu riproposto di insegnare lì. Feci il mio primo lavoro su un testo teatrale, scelsi il terzo atto di Le tre sorelle di Checov, anche quello per me fu un esercizio, ero io che insegnando, imparavo, andavo a scuola. Tra gli allievi quell’anno ricordo Antonio Albanese, Battiston, tra gli insegnanti c’erano Kantor, Thierry Salmon, era un’ambiente stimolante, come quello che c’era alla scuola Holden nel 1994, quando con Alessandro Baricco, condividevo un corso che si chiamava Leggere, c’erano Voltolini, Sandro Veronesi, Carlo Lucarelli, facevamo delle riunioni in cui ci interrogavamo, organizzavamo lezioni comuni, ricordo che una volta, durante una lezione, i ragazzi mi dissero che Bruno Fornara aveva affermato esattamente il contrario di quello che stavo dicendo, così lo chiamai e organizzammo un confronto in aula grande in cui si sviluppò un dibattito interessante.
6. Negli anni ’90 esce Il racconto del Vajont, perché sceglie di raccontare quella storia e come nasce la collaborazione con Paolini?

L’incontro con Paolini è avvenuto alla scuola di Barba. Il primo spettacolo che abbiamo fatto insieme si chiamava Riso amaro, avevamo utilizzato il testo dell’omonimo film di Giuseppe De Santis. In scena avevamo Roberto Tarasco, che faceva ancora l’attore, Marco Paolini, Rossella Testa e Lucilla Giagnoni.
Il primo giorno di prove stavamo giocando con uno scivolo fatto di assi di legno, un oggetto scenico che ci eravamo inventati, a causa del quale Marco si ruppe una gamba e fu costretto all’immobilità per due mesi. Abitava a Treviso, per via dell’infortunio rimase ospite a casa mia. Dato che non potevamo più dedicarci a quel progetto, come consolazione avevamo cominciato a lavorare a uno spettacolo che aveva un solo personaggio fermo in scena. Con Adriatico, che era la messa in scena del racconto Le petit Nicolas, di René Goscinny, portavamo alle estreme conseguenze l’idea del raccontare, propensione nata con Elementi di struttura del sentimento, e notata mediante il riconoscimento dell’Ubu, di recente Gerardo Guccini, un professore che fa ricerca mi ha ricordato le motivazioni alla base del premio “Per il felice ritorno della narrazione a teatro”.
Era la fine del millennio scorso, c’era un’ambiente culturale caotico, che faceva pensare alla fine dell’arte, a un cambiamento che toglieva la prospettiva di futuro, ma noi giovani non potevamo accettare questa mancanza di avvenire, così abbiamo cominciato a frugare tra le macerie, a ricostruire modelli e possibilità narrative. Con la Curino avevamo fatto Passione, raccontavamo storie personali, per lo più d’infanzia. Con Marco cavalcammo l’onda del raccontare prima con una serie di spettacoli Gli album, poi con La storia di Romeo e Giulietta, da qui decidemmo di concentrarci su storie che appartengono a una memoria collettiva.
Era il 1991 quando un signore mi chiese di preparare uno spettacolo celebrativo per i trent’anni della catastrofe del Vajont. Mi venne in mente una sorta di tragedia greca, scrivemmo la prima bozza di sceneggiatura io e la Curino, ne venne fuori il primo soggetto. Mi chiesero di fare un sopralluogo, e siccome Marco è di Belluno, l’avevo invitato a venire. Quella sera sentii mia madre al telefono, “sai che sono a Longarone” le dico, “sei dove c’è la diga del Vajont?” mi chiede, “si ci sono sotto”, e lei mi risponde “fai attenzione!”. Mi ero reso conto da quella telefonata che la memoria di quella tragedia nella generazione dei miei genitori era vivida, tanto che per mia madre era ancora pericoloso stare lì, così mi interrogai su cosa fosse la memoria e su cosa avesse rappresentato quella tragedia. Avevo intenzione di farci un film, poi Marco iniziò a raccontarlo, e una volta scritto ci siamo resi conto che era tutto lì.
La messa in scena durava all’incirca tre ore, e finiva con un espediente drammaturgico per cui venivano lasciate in sospeso una serie di domande, al termine dello spettacolo quasi mai vi era l’applauso, gli spettatori avevano un gran magone, e succedeva sempre, che qualcuno si alzava e chiedeva Ma poi come è finito il processo? E da quel momento lo spettacolo riprendeva per un’altra mezz’ora durante la quale Marco raccontava come era terminato il processo.
Non so se Il racconto del Vajont si può definire uno spettacolo, Marco ci teneva a chiamarlo “orazione civile”. Uno studioso lo definì teatro di narrazione, da qui s’iniziò a parlare del filone.
Nel 1994 viene pubblicato Novecento di Alessandro Baricco.
Tutto era nato a partire da Elementi di struttura del sentimento.
Con la Curino facemmo Camillo Olivetti, alle radici di un sogno. Un mito della generazione prima della nostra. Tutti conoscevano le macchine per scrivere Olivetti, ma nessuno sapeva la storia. Erano due imprenditori illuminati, il padre Camillo e il figlio Adriano, come non ce ne sono stati più in Italia. La nostra imprenditoria è miope, rapace, non ha grandi capacità immaginative come quella anglosassone o francese che s’incentrano su momenti di grande progettazione sociale. In Italia andiamo a rimorchio storicamente, Montanelli, Scalfari, dicevano che non c’è mai stata una classe borghese. Con Camillo e Adriano invece abbiamo due mosche bianche, delle quali si sa poco un po’ come per la catastrofe del Vajont, tutti pensavano che fosse crollata la diga, e invece la diga c’è ancora. In questa storia c’è una grande impresa tecnologica, gestita bene dal punto di vista tecnico ma non dal punto di vista politico, sociale e umano, è quello il problema.
La diga del Vajont nasce dall’idea di due costruttori, gli ingegneri Carlo Semenza e Giorgio Dal Piaz, che volevano costruire la diga ad arco più grande del mondo, poi si son fatti prendere la mano e hanno perso il controllo della situazione, passarono così dall’etichetta di sognatori a quella di criminali, producendo duemila morti.
Il tema del progetto: ci diamo un gran da fare per progettare cose grandiose, ma dobbiamo tener conto che le condizioni intorno cambiano. L’impossibilità di progettare è il cruccio della mia vita, racconto sempre la stessa storia. Quando esprimi un desiderio, lo concretizzi in un progetto e poi segue un tempo di realizzazione, che è implacabile, va a modificare le condizioni su cui avevi costruito il progetto iniziale.
7. Totem nasce come spettacolo teatrale per poi approdare su Rai3. Date voce a Carver, Rostand, Gadda e altri, riportando la letteratura alla vita quotidiana, raccontandola con semplicità, come potrebbe fare un nonno con i nipoti. Da dove nasce Totem? Gli attribuisce un valore pedagogico e/o politico? Cosa ha significato per lei la televisione? In questo caso possiamo parlare di teatro in tv?
Totem nasce alla Holden. Durante le lezioni che io e Baricco tenevamo insieme improvvisavamo dei veri e propri spettacolini che ci fecero diventare in poco tempo una collaudata coppia comica. Dopo circa un anno, sollevai una questione di tipo pedagogico, “ciò che facciamo è interessante e loro si divertono”, ma così facendo sono degli spettatori, dovevamo correggere il tiro e far lavorare i ragazzi, dovevano imparare a diventare protagonisti.
Noi gli spettacolini ce li potevamo fare in teatro, e così facemmo.
Eravamo io, Baricco e Tarasco, e ogni volta chiamavamo degli ospiti. Il cast con Stefania Rocca, Eugenio Allegri, e Daniele Sepe era quello della ripresa televisiva, gli ospiti invece si alternavano, Sandro Veronesi, Arianna Scommegna, Gigi Dall’ Aglio, sono i primi che mi vengono in mente. Era una maratona che durava più di tre ore, per due sere, una roba infinita. In teatro c’erano momenti in cui semplicemente facevamo ascoltare la riproduzione di un pezzo di Mozart, ci sembrava un gesto di straordinaria follia, al pubblico piaceva, questo per me significava stare in teatro.
Non avevamo mai fatto prove per Totem. Si provava solo quando c’erano gli attori, Stefania Rocca, Eugenio Allegri, lì ci avvicinavamo al teatro tradizionale. Una volta stavo preparando, mi pare fosse un pezzo de Il circolo Pickwick, con Allegri che aveva imparato il pezzo da recitare, intervenne Alessandro, che assisteva alle prove, dicendo “cavolo vorrei vedere questo stasera in teatro, più interessante vedere voi che lavorate sul pezzo che il pezzo finito, senza nulla togliere a Eugenio che è bravissimo, ci mancherebbe”.
Questo succedeva nel 1996, allora non c’erano Youtube, Skype, Facebook, all’epoca se ascoltavi Mozart in un teatro con le luci accese come se fossi a casa tua, non ti lasciava indifferente, era un qualcosa che il cinema, che Netflix non ti poteva dare: la creazione di una relazione diretta con un’altra persona, prerogativa unica del teatro.
Skype, Zoom, Duo, i nuovi mezzi che abbiamo, ci costringono a rimescolare le carte in tavola, perché assomigliano alla presenza, se io e te ci parliamo tramite una di queste applicazioni, come in questo momento, è come se fossimo vicini fisicamente. Questo ci costringe a estremizzare l’esperienza del teatro. Personalmente di andare come spettatore, in un posto al buio, mentre ci sono due che fanno un dialogo in luce, non ho più voglia, resto indifferente, meglio Netflix, il teatro con la quarta parete non m’interessa, sono cento anni che si lavora per abbatterla. Se non faccio esperienza di una luce accesa su di me, in assenza di attori, in presenza solo di uno scrittore, un regista e un dj che riproduce una musica di Mozart da ascoltare in un luogo costruito per l’ascolto comune, se questo non accade, non vale la pena. Il teatro non va confuso, Skype o Zoom non sono comunicazione diretta.
Con Totem facevamo comunicazione diretta, per questo fu un grande successo. Credo, e lo dico senza falsa modestia, che abbia profondamente condizionato tutto quello che c’è stato dopo. I reading oggi rappresentano la normalità, prima nessuno li faceva, ma anche la prima edizione di Mantova Letteratura (il Festival N.D.R.) è stata influenzata da Totem.
Abbiamo pacchi di rassegna stampa come testimonianza, e solo una recensione teatrale, sembra quasi che il teatro non se ne sia accorto, c’è soltanto una recensione di Totem su La Gazzetta del Mezzogiorno, di Ageo Sabbioli, credo sia in pensione, s’intitolava “Due Simpatici Farabutti”; s’interrogava, simpaticamente, su come uno scrittore e un regista, incapaci di recitare, che parlano in piemontese, fossero riusciti a riempire un teatro di mille posti, con un’aggiunta di duecento posti la seconda sera. Non trovava risposte al fenomeno che evidentemente era profondamente teatrale.
Il teatro in televisione non esiste, esiste il teatro ed esiste la televisione. Il racconto del Vajont fece degli ascolti altissimi in tv, ma quando andavi a vederlo in teatro era una cosa diversa, la luce in sala era accesa così come in Totem, questo è fondamentale perché chi parla può ascoltare chi ascolta, chi agisce può vedere chi guarda, proprio come in un rapporto pedagogico.
Quando sono in una classe, so cosa devo dire perché conosco la materia ma non imparo a memoria, la mia lezione sarà diversa a seconda dell’umore di chi ho di fronte, gli studenti non mi sono indifferenti, anzi, modifico ciò che dico, il modo in cui lo dico, a seconda delle esigenze, la necessità di essere presenti è una peculiarità anche del rapporto teatrale, e questo non è sostituibile da Zoom o da Skype. Grazie a questi nuovi strumenti, il teatro può emanciparsi dal ruolo dell’intrattenimento, sono del parere che di questo si occupi meglio Netflix.
Ho guardato una serie che si chiama Skam Italia: inizialmente racconta degli amori tra ragazzini al liceo, dopo qualche puntata della prima stagione l’ho abbandonata, poi mia figlia mi ha consigliato di continuare e l’ho fatto: è una produzione italiana, ho constatato che la qualità della presenza degli attori è elevata. I giovani attori recitano come gli spagnoli e gli americani. L’altra serie, Baby di produzione italiana, aveva una recitazione terrificante, non posso vedere gli attori alla Servillo (è un caro amico e un attore fantastico), o alla Giannini, sembrano dei documenti del tempo che fu, una recitazione quasi grottesca.
Per fortuna anche i doppiaggi stanno cambiando, prima gli attori erano enfatici, una roba impossibile.
Un’altra serie che mi ha convinto è Riverdale, anche questa inizia con gli amori tra ragazzini al liceo, ma poi diventa un intrigo politico, una lotta per il potere, pazzesco.
In terza ci venne a fare lezione di educazione sessuale il prete, fu un trauma. Da allora mi sono sempre chiesto cosa fosse l’educazione sessuale, ho trovato delle risposte attraverso la lettura di Madame Bovary, L’educazione Sentimentale ecc. Qualche nozione pratica può dartela un medico, come spiegarti l’utilizzo del preservativo ma niente di più. Adesso c’è una serie tv inglese, Sex Therapy, cavolo quello è un vero e proprio corso di educazione sessuale, ed io non immaginavo fosse possibile, mi sembrava una invenzione folle messa su dai preti perché i genitori non avevano il coraggio di affrontare l’argomento. Le nuove serie, a differenza del teatro, raggiungono l’utenza giusta, e rappresentano persino la maggiore opposizione al sovranismo, tutte le serie di Netflix hanno contenuti integrativi, e sono progressiste, spingono alla tolleranza, alla comprensione delle diversità.
Degrassi è un’altra serie che ho visto, anche qui ci sono le storie del liceo, è il libro Cuore, il catechismo laico del comportamento adeguato da mettere in atto. Stanotte guardavo la quarta stagione dove c’è una ragazza musulmana che ha una serie di turbamenti, in una scena la madre la chiama e le chiede “dove sei?”, lei risponde “con le mie amiche”, “tutte italiane?” dice la madre, e lei “ma anche io sono italiana”.
Questo è intrattenimento in grado di educare. Dobbiamo distingue l’educazione, che implica il passaggio di informazioni utili, ma già acquisite, e che si muove nel conosciuto, dalla pedagogia che invece ti insegna a imparare e si muove nello sconosciuto. I ragazzi con i quali lavoro, hanno la necessità di fare esperienza dello sconosciuto, e per fare questo devono avere delle solide basi sul conosciuto.
8. Nel 2002 il Teatro Settimo viene acquistato dal Teatro Stabile di Torino, quali cambiamenti ha comportato questa scelta?

La vendita del Teatro Settimo al Teatro Stabile, dopo venti anni di attività, è stato un grosso errore. L’avevamo fatto con l’intento di influenzare una grande istituzione, ma il Teatro Settimo era ormai diventata una grande istituzione, come Teatro Stabile d’Innovazione, in Italia era seconda solo al CRT di Milano e godeva di alti finanziamenti. Mi sembrava assurdo che ci fossero due realtà teatrali, lo Stabile e lo Stabile d’Innovazione, in un territorio dove non era più chiaro cosa significasse innovazione, avevo pensato che concentrare tutto in un’unica struttura con un settore dedicato all’innovazione, ci avrebbe dato maggiori possibilità.
Di recente ho trovato un progetto che mi avevano chiesto di fare nel 1997, quando ero candidato per la seconda volta alla direzione del Teatro Stabile di Torino; avevo delineato un teatro che comprendesse tradizione e inclusione.
Quanto mi manca vedere Sei personaggi in cerca d’autore, Romeo e Giulietta, Filumena Marturano, queste sono cappelle sistine da vedere con attori bravi e luci giuste. Il teatro pubblico dovrebbe trasmetterle e accogliere coatti i ragazzini perché le grandi opere non annoiano se fatte bene, annoiano quando ci sono regie di travestimento, questo vale anche per l’opera, se ambiento il ballo in maschera nelle lezioni americane, non ha senso.
Il teatro può addestrare a essere presenti a sé stessi, attraverso le cosiddette pratiche del teatro, su questo hanno lavorato i più grandi maestri del ‘900, una tradizione iniziata con Stanislavskij, passando per Coupou, Brecht, fino a Grotowski. Il teatro può emanciparsi dallo spettacolo, andare oltre. C’è più gente che fa teatro di quanta va a teatro, di questa buona notizia le grandi istituzioni dovrebbero prenderne atto: il teatro crea comunità. Questo secondo me oggi assume le caratteristiche dell’inclusione.
9. Negli anni 2000 il suo interesse si rivolge al cinema, esce il docufilm Uno scampolo di paradiso che vince il premio della giuria al festival di Annecy, e nel 2008 dirige il progetto TAM, (Teatro e Arti Multimediali) con il Palestinian National Theatre. Crede che il cinema abbia un potere comunicativo più ampio rispetto al teatro? Cosa porta con sé dell’esperienza al Teatro Nazionale di Gerusalemme?
Il teatro è un’arte minoritaria, avviene soltanto in presenza, non è riproducibile e quindi numericamente insignificante paragonata ai numeri del cinema o delle piattaforme contemporanee. Con Bruno Fornara abbiamo discusso a fondo sul ruolo del cinema ieri e oggi. Ricordavamo quella fumosa e affollata saletta cinematografica frequentata dai giovani del ’68, diffusa qui a Settimo Torinese come a Parigi, dove se andavi con la ragazza cercavi il posto in ultima fila per poterla baciare, era come in Nuovo cinema paradiso, un luogo di comunità.
Credo di essere uno dei pochi a frequentare il cinema d’essai oggi, anche perché gli schermi sono grandi quasi come quelli che abbiamo a casa. Ultimamente mi si è rotto il televisore, così ne ho comprato uno sul quale posso guardare Netflix, prima lo guardavo sull’ iPad, in vendita ho visto anche schermi grandi come quelli del cinema centrale, quindi mi chiedo: chiamiamo ancora cinema tutto questo? Le piattaforme possono essere definite cinema? Le serie sono cinema?
L’esperienza del cinema intesa come la sala dove vado a vedere un film al buio, in compagnia di altri, si avvicina al teatro, perché in entrambe i casi devo prepararmi per uscire, in genere dopo vado a mangiare una pizza con gli amici. Altra cosa è il gesto di guardare la tv, dove invece mi metto comodo, mi svesto.
Nel tempo del cinema, quando andavo a vedere un film di Bergman, in quel momento, chissà gli attori dov’erano, mentre se andavo a vedere Strindberg a teatro gli attori erano presenti, questo mi bastava a giustificava il fatto che a andassi a teatro piuttosto che al cinema, oggi ho la possibilità di vedere riprodotto il teatro, in modo straordinario, nello schermo. Quando ero direttore artistico ai teatri di Reggio Emilia, sceglievo gli spettacoli per la stagione dopo averli guardati in video, ed è incredibile come vederli poi in teatro, non mi aggiungeva niente, anzi a volte mi mancava la ripresa del dettaglio.
Uno scampolo di paradiso era il racconto della realtà di Settimo Torinese, ma anche di tutte le periferie del nord Italia e del nord Europa, emancipate dalla possibilità di essere soltanto dei dormitori, città pervase dal degrado. Quando ho fatto questo docufilm, mi sono reso conto che la qualità della vita a Settimo, dove sono nato e tutt’ora vivo, era altissima. È un posto dove esiste la società, intesa come una fitta rete di relazioni documentabili attraverso il cinema, a differenza del teatro che è una macchina che le relazioni le produce, nessuno è meglio dell’altro, l’uno serve all’altro. Ho poi scoperto il montaggio, il fatto di avere tra le mani tutti i pezzi che devono solo essere assemblati, è una roba che mi fa impazzire, è come fare il teatro senza gli attori; non che mi stia lamentando degli attori, ci mancherebbe, mi piace occuparmi dei loro umori, delle debolezze che esaltano la loro umanità, fanno un lavoro pazzesco, e necessitano di protezione. Sono due gesti diversi, l’uno bello quanto l’altro. Prediligo gli attori involontari. Con i ragazzi vediamo cose americane, inglesi, orientali, cose dove gli attori sono veri, pedagogicamente se gli attori imparano ad essere veri poi sanno anche essere finti. L’essere veri può comprendere l’essere finti, l’essere finti non contempla l’essere veri.
Negli ultimi tempi, in classe, abbiamo avuto un momento di scontro perché un’allieva, tra le più brave tra l’altro, a un certo punto è andata in crisi perché le chiedevo verità. Lavorandoci, piano piano è riuscita ad arrivare a questo momento di presenza sua, reale, a quel punto le ho chiesto di giocare enfatizzando tutto, lì un altro ragazzo si è risentito, diceva “ma come sarebbe scusami, prima ci fai tutta sta manfrina sull’essere reali e poi facciamo questa cosa?”, era offeso “ma allora è tutto uguale?!”. Soffriva perché ci lavoriamo da un anno e mezzo, “no non è tutto uguale” gli dico, “adesso sai che se Letizia è capace di essere vera potrà anche fingere, quando lavorerete dovete essere capaci di saper fare tutto, l’importante è che sappiate cosa state facendo“.
10. Come si arriva alla consapevolezza?
La consapevolezza si raggiunge attraverso l’osservazione e l’ascolto.
Ci sono delle pratiche per imparare ad ascoltare e a guardare.
L’essere presenti, dovrebbe essere una materia da insegnare a scuola. Il mio maestro alle elementari, era uno che non aveva una vera vocazione, insegnava per integrare lo stipendio di assicuratore, la sua seconda attività, per cui tutta la classe era assicurata da lui. Ai tempi, anche quelli che non erano particolarmente motivati, durante l’appello si accorgevano se l’allievo fosse davvero presente oppure rispondeva pur avendo la testa altrove, si veniva dalla guerra, dove un gesto o una parola, potevano significare vita o morte.
Con i ragazzi di Gerusalemme, al Palestinian National Theatre, non abbiamo dovuto fare un lavoro sulla presenza. Loro sono continuamente in allerta, ciò che dicono o fanno può rappresentare un pericolo. Peter Brook dice “dovete stare come una sentinella nella garitta, nella vostra postazione, con il fucile e gli occhi ben aperti, in gioco c’è la vita dei compagni, che spesso sono amici, e quando siete lì rappresentano di fatto la vostra famiglia”.
Il gioco è rimanere in allerta quando non c’è pericolo, perché arriva quando meno te l’aspetti, e se non sei addestrato (come è successo per il Covid) la realtà ti cade addosso, il rischio è grosso, la gente muore.
11. Quanto è importante la lentezza ai nostri tempi?
È importante stare con il tempo. Il problema è che pensiamo in termini di nostalgia nei confronti del passato, desiderio di futuro, e ci soffermiamo dietro a questo maledetto carpe diem, per cui bisogna cogliere l’attimo a tutti i costi. Io dico che una cosa è cogliere, un’altra è strappare. Oggi, quando ci dicono che bisogna cogliere l’attimo, in genere intendono che bisogna strappare l’attimo, ma se tu strappi un fiore, invece di coglierlo, lo uccidi. Così viviamo di attimi strappati, che muoiono subito, allora stare con il tempo è la strada.
Vorrei entrare in un teatro e poterci stare tutto il giorno, come quando vado al museo, lì sto un’ora davanti a un David, nel frattempo consulto internet, parlo con delle persone che sono arrivate, incontro gente, mi capita la vita, quello significa stare il tempo. A volte è lentissimo, in uno spettacolo magari per mezz’ora non succede niente di eccitante, posso distrarmi, annoiarmi, è bellissimo annoiarsi e stare con il tempo. In questi due mesi e mezzo di ritiro spirituale, le persone non vedevano l’ora di ricominciare “bisogna ripartire, oddio che supplizio, che sofferenza stare a casa”.
Stare a casa fa soffrire se non sai stare con il tempo.
Viviamo in una società priapistica, costantemente in erezione, tutto deve essere forte, gesto eroico, ma se ci fai caso, gli spettacoli, la danza, le pubblicità in questo periodo sono cambiate, in sottofondo c’è solo musica new age.
Pensa alle trasmissioni televisive senza applausi, è una roba che cambia radicalmente la tua percezione. Prima nei talk show c’era un applauso per ogni parola, era tutto pompato, un’ansia pazzesca, da due mesi non si può pompare. Cosa faranno ora, è veramente un problema se le persone non applaudono a ogni frase? Non mi sembra, la televisione si fa lo stesso.
La nostra vita è fatta di alternanza tra momenti veloci e lenti. L’altra sera, a un dibattito in streaming mi hanno chiesto se mi occupassi di benessere, gli ho risposto “no, per il benessere ci sono i centri adatti, dove tra l’altro mi piace molto andare, io mi occupo dell’essere“. Tutti ci auguriamo di stare bene il più possibile, ma sappiamo che ci sono momenti in cui non stiamo bene, può capitare una slogatura a una caviglia, come una epidemia, e quindi cosa faccio? Noi lavoriamo continuamente per il benessere, ossessivamente, tanto da farlo diventare uno stress pazzesco. Dobbiamo imparare a stare anche quando non stiamo bene, questo è.
12. Nel 2017 nasce l’Istituto di pratiche teatrali per cura della persona, nasce nel 2017, è un teatro che si occupa d’inclusione e narrazione, lavorate negli ospedali, nelle scuole e negli istituti di igiene mentale. Nella pratica quali sono gli obiettivi di questa istituzione?
L’istituto di pratiche teatrali per la cura della persona nasce tre anni fa, mentre le prime pratiche teatrali documentate per la cura della persona, risalgono al V secolo a. c.
Il teatro di Epidauro era un reparto dell’ospedale del tempio di Asclepio, il più grande ospedale dell’antichità. Epidauro era un luogo isolato dove la gente andava a guarire. Il teatro, nonostante avesse una capacità contenitiva di dodicimila posti, godeva di uno spazio scenico piccolo, dedicato ai riti catartici, alla guarigione. Questo era il teatro in origine.
All’istituto noi che abbiamo una esperienza teatrale lunga, lavoriamo sulle fonti del teatro: rito, gioco e narrazione; collaboriamo con la rete oncologica regionale, con il Regina Margherita, i centri d’igiene mentale, gli Sprar, i Cas, i rifugiati, gli immigrati, ma anche con gente comune, anzi abbiamo la tendenza a mischiare. Quest’estate abbiamo fatto un campus a Villanova D’asti, dove questo mischiare ha creato comprensione. È stato incredibile come due persone con disturbi alimentari, seguite da un medico, nel giro di poco tempo hanno ridotto i farmaci. C’è Stefano Masotti, uno psicologo clinico, che applica i protocolli tradizionali, che ormai da anni sta monitorando il lavoro che facciamo, e afferma che le pratiche teatrali sono competitive addirittura con gli psicofarmaci.

13. Il 30 aprile lancia la proposta di riaprire i teatri. Oggi pensa ancora che un futuro in quel senso sia possibile?
Credo sia inevitabile, penso che piano piano tutte le istituzioni teatrali si convertiranno al dualismo di cui parlavo precedentemente. Se questo non succede i teatri diventeranno dei supermercati, come già sta accadendo. Il Teatro Smeraldo, uno dei più grandi teatri di Milano è diventata una sede di Eataly, il Teatro Italia a Venezia, ora è una Conad. Questo è un fenomeno che continuerà ad avanzare se non si prende atto del fatto che ci sono più persone che fanno teatro di quante vanno a teatro. Le funzioni che resisteranno sono: il museo e l’inclusione.
Per il momento la mia proposta è stata ben accolta da tante persone che mi hanno scritto cose, anche commoventi, ma le grandi istituzioni teatrali, nella stragrande maggioranza temono questo tipo di innovazione, che sostanzialmente significa tornare alle origini. Al momento ripropongono moduli convenzionali.
14. Secondo lei il timore deriva da ragioni economiche?
Il teatro in Italia è pubblico ed è sovvenzionato con i soldi dei contribuenti, gli incassi costituiscono una parte minoritaria dei budget, questo ha fatto crescere gli apparati, ossia le strutture organizzative amministrative, dove le persone che vi lavorano sono assunte a tempo indeterminato. Quando i politici parlano di garantire l’occupazione nel teatro, nel cinema, nelle arti dello spettacolo eccetera, si riferiscono agli apparati, senza inclusione del personale artistico, che lavora a tempo determinato, spesso i lavoratori sono scritturati a giornata, per cui in questo periodo hanno sofferto.
Questo ha creato una sperequazione, da una parte ci sono gli apparati che hanno la garanzia di uno stipendio, che non corrisponde a un reale mercato, dall’altra c’è il personale artistico che non avendo garanzie, molto spesso risulta ricattabile.
Non ci sono ragioni economiche; con gli stessi soldi, si potrebbero garantire le funzioni essenziali. Il teatro facendo un lavoro socialmente utile, ossia intervenendo sulla salute delle persone, credo godrebbe di una migliore considerazione e otterrebbe molti più finanziamenti, quindi non è quello, si tratta di pigrizia intellettuale. Bisognerebbe ripensare tutto in profondità, questo periodo poteva essere una buona occasione, ma la situazione è molto incrostata.
Le stesse strutture pubbliche dicono che con i soldi dei contribuenti ci fanno l’intrattenimento, ma io con quei soldi potrei pagarci la cultura, che è una necessità sociale, salva le vite.
Quando faccio un’opera, quasi sempre penso che sarebbe meglio darli ai poveri quei soldi lì, alla Caritas, a Gino Strada, non lo so. Mi sento sempre in difficoltà.
Mentre quando lavoro in un centro d’igiene mentale sono contento. Da molti secoli ormai la bellezza è ostaggio della forma, noi pensiamo che la bellezza sia produzione di forme, ma questo è da superare, quando lavoro in un centro con dei ragazzi autistici, mi rendo conto che uno sguardo, un contatto tra due persone, contiene una bellezza straordinaria, più bella della Venere di Botticelli, con tutto che la Venere di Botticelli è meravigliosa. Pensa a quanta forma ci viene rovesciata addosso quotidianamente, ormai più che andare a cercare forme, dobbiamo difenderci. Io quando mi arriva la notifica di Pinterest la cancello, non voglio più vedere tutta quella roba. Dappertutto trovo forme, continuamente forme, mi escono dalle orecchie.
Dobbiamo emanciparci dall’incubo della forma in favore dell’interazione, e questo accadrà, inevitabilmente.
Copyright fotografie: Gabriele Vacis