Il 12 aprile 1633 Galileo, convocato dalla Santa Inquisizione, si presentò a processo, reo di aver sostenuto la teoria copernicana pubblicando il Dialogo sui massimi sistemi. Subì minacce di tortura, fu incarcerato e dovette abiurare. Copernico, a suo tempo, non ebbe mai attriti con la Chiesa, questo perché mai si spinse a esplicitare che la sua teoria eliocentrica era, oltre che una prefigurazione geometrica, e quindi poco più di un modello astratto, per quanto applicabile, anche e soprattutto un’ipotesi fisica, reale, di lettura esclusiva del mondo materiale e dei movimenti degli astri. Ma non è questo che conta. Non l’evento, il fatto storico in sé, bensì le sue conseguenze. A interessarci è la rivoluzione avvenuta in quel periodo e nata dall’idea per cui la Terra, e quindi l’uomo, non è il centro dell’universo. Ciò, ovviamente, ebbe e ha tuttora importanti implicazioni escatologiche. Non è solo questione di spazio, infatti, ma di gerarchia, o di eliminazione della stessa gerarchia: noi non siamo, o non siamo più, il centro di senso dell’universo. Noi uomini, noi singoli soggetti. E da quella rivoluzione, unita, ad esempio, in tempi più recenti allo sviluppo di alcune teorie psicoanalitiche, alla critica dell’Illuminismo, al postmodernismo filosofico e così via, ci troviamo a dover rintracciare in noi un nuovo equilibrio del tutto personale. La visione della storia viene privata di ogni finalismo, finisce il tempo delle grandi narrazioni, la verità si frammenta. Eppure sentiamo ancora di tendere a qualcosa; semplicemente non sappiamo più cosa ci attrae. Chiamiamolo senso, chiamiamolo scopo, chiamiamola vocazione o predisposizione: tutto ciò che ci restituisca il nostro baricentro, che ci protegga dall’assurdità e dall’inesistenza di un senso ultimo assoluto, o che ci porti ad accettarla. Un quid che ci identifichi, che ci restituisca interi a noi stessi. Un baricentro che sia un centro emotivo. Una controrivoluzione tutta personale da attuare per stare nel mondo senza subirlo. D’altronde la parola rivoluzione viene dal latino e la sua etimologia richiama il significato di rivolgimento, di ritorno. Nell’uso scientifico indica il movimento di un corpo attorno a un altro corpo, attorno a un centro, nell’uso medico fa riferimento alle palpitazioni del cuore, ai suoi moti, al suo ritmo.
Scrive Camus ne Il mito di Sisifo: “Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo. L’assurdo dipende tanto dall’uomo quanto dal mondo, ed è, per il momento, il loro solo legame”. Queste considerazioni, è ovvio, generalizzando molto, scaturiscono dalla condizione di un uomo che non è più incluso in un disegno universale, un uomo a cui la chiarezza è sottratta. L’impressione, dunque, è che l’assurdo si elevi a effettivo disegno universale, riducendoci a tanti piccoli Sisifo, costretti ogni giorno a spingere il proprio masso in cima alla montagna per poi vederlo rotolare giù, e dover ricominciare. Il sentimento che si lega a questa condizione è la perdizione, ma è qui che si necessita una controrivoluzione, un nuovo appropriamento di sé. Come? Sposando l’assurdo, ricercando la nostra postura, il nostro ritmo, il nostro baricentro. Di questo e altro abbiamo discusso con Mariangela Gualtieri, le cui parole, scritte, recitate, ci sono parse risuonare con quanto proviamo a dire qui: che esiste un equilibrio, esiste una quiete, c’è un’armonia raggiungibile attraverso l’apertura, lo scavo interiore, l’ascolto. Ci siamo messi in ascolto, anche noi, di Mariangela, che ci ha raccontato le sue piccole rivoluzioni personali.
“Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. […] Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.”
Albert Camus, Il mito di Sisifo

Elevare a propria postura privilegiata la capacità di mettersi in ascolto, di stupirsi, di contemplare quanto ci circonda, il mondo, le cose del mondo, e predisporsi alla meraviglia: questa è la prima controrivoluzione di Mariangela, ed è lei a dirlo: “c’è un equilibrio perseguito lungamente, con attenzione e puntiglio, e sempre da riconquistare, sempre in pericolo, perché stare nella vita è pericoloso. I verbi che elenchi richiedono tutti una deposizione di sé ed una accoglienza dell’altro da sé – umano, animale, vegetale, ecc. – insieme ad uno spirito d’indagine avventuroso”. Questa capacità di mettersi in ascolto, di rintracciare un’armonia fra i cocci di una realtà che è uno specchio in frantumi, e che corre e muta veloce, è ciò che Mariangela in quanto donna e in quanto poetessa oppone all’assurdo. È lo strumento che si dà per lottare verso la cima, e riempirsi il cuore. “Per come si è formata la mia storia, che è cominciata all’inizio degli anni ’50 in un mondo pre-consumistico e piuttosto povero, questi ingredienti non sono mai mancati. Da un certo punto in poi ho cominciato a tenere a bada la mia mente, a osservarla, guidata dalle parole di molti maestri, e questo ha dato una qualità avventurosa ad ogni aspetto della mia vita, a volte anche al dolore: era interessante non essere più soggetto ma oggetto delle mie osservazioni, oggetto dei miei studi”, dice Mariangela. “Le parole dei savi sono potenti, agiscono in noi lungamente, modificano la nostra essenza sottile. Io ho avuto fiducia in delle parole e senza dubbio sono stata guidata, abbellita, fortificata e spesso rallegrata da delle parole”. E le sue, di parole, contengono già il seme di una riflessione. L’importanza dell’apertura, di quella che Mariangela chiama accoglienza dell’altro da sé, sta nella difficoltà della pratica quotidiana di questa qualità, oggi che la società in cui viviamo non è più una società pre-consumistica, ma anzi una società frenetica, liquida, costruita (o decostruita) sul soggettivismo, per dirla con Bauman e Eco. Ascoltare, stupirsi, contemplare e meravigliarsi: questo tipo di armonia, così pura e allo stesso tempo lontana dalla frenesia del quotidiano, è una forma di energia attiva e piena che si contrappone all’ascolto passivo dell’altro, in una modernità (o postmodernità) in cui, di nuovo, regna “la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza”, e che “ciò che è stato frantumato non può essere reincollato.” (Zygmunt Bauman, Modernità liquida). Facciamo riferimento, per intenderci, alla fase storica in cui siamo entrati da tempo ormai, dagli anni Sessanta, e in cui si è per prima concepita l’idea di postmodernismo. La fase dei mercati globali e della finanza integrata, della pubblicità invasiva e degli schermi, del flusso tumultuoso di informazioni in movimento. La fase della verità fatta a pezzi e della responsabilità individuale di ricostruirla per sé, pur coscienti che ogni ognuno sa ricostruire a modo suo le fondamenta su cui potrà vivere. Questo, in fondo, conta. Conta vivere.
Subito si cuce questo niente da dire
Mariangela Gualtieri, Quando non morivo
ad una voce che batte. Vuole
palpitare ancora, forte, forte forte
dire sono – sono qui – e sentire che c’è
fra stella e ramo e piuma e pelo e mano
un unico danzare approfondito, e dialogo
di particelle mai assopite, mai morte mai finite.
Siamo questo traslare
cambiare posto e nome.
Siamo un essere qui, perenne navigare
di sostanze da nome a nome. Siamo.

L’ultima raccolta di Mariangela (Quando non morivo, Einaudi, 2019) ci è parso raccogliesse i temi introdotti. La poesia si condensa attorno a una visione primordiale, armonica di disseppellimento delle pure forze che ci circondano, conosciute e ignote, e che si amalgamano a formare l’esistente. C’è lo sforzo di rintracciare un nucleo primo, una legge vitale. Uno sforzo puro, non speculativo: due occhi lucidi che si limitano a cogliere ciò che vedono, e ad ascoltare anche chi non ha facoltà di parola. Questo movimento, di intermittenti chiusure contemplative e aperture liriche, è il movimento che Mariangela compie verso un centro emotivo individuabile nella raccolta. Si tratta di un centro in continuo movimento, di un equilibrio raggiunto per tramite del moto, come su una bicicletta, e di una ricerca inesauribile, che permette di tenerlo a fuoco. Mariangela paragona questo movimento, che ci pare di intuire nei suoi versi, o dietro il sipario dei suoi versi, al viaggio di Dante nella Divina Commedia. “Dante ci racconta proprio questo ritorno a sé stessi,” dice Mariangela, “questo viaggio che va dalla paura all’amore. Da un io molto pavido e smarrito fino al mio ‘disio e il velle’ consegnati a quella forza che Dante chiama ‘amor che move il sole e l’altre stelle’. Una solenne abdicazione del desiderio e della volontà ad una forza che regola stelle e galassie.” Continua Mariangela: “Il nostro io più vero forse è il più impersonale, forse si è formato all’origine dell’universo ed è traslato da sostanza a sostanza, da vita a vita, fino a questa forma attuale che si è data un nome e cognome entro i quali si sta molto stretti. Tutto il sangue della terra era una vena nel mare, come scrive la Morante ne Il mondo salvato dai ragazzini. C’è stato anche un organismo comune, fra animali e vegetali, prima che si separassero i regni. Io credo che tutto questo viva in me e sia il mio più antico me. Per questo forse Ungaretti scrive ‘Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia….’. A me pare di essere più pienamente quanto più sono in armonia con tutto il resto, e perché questo accada qualcosa va deposto, il mio io deve starsene accucciato. Ma in questo mondo e in questo tempo nessuno ci insegna questo inchino, anzi, l’esasperata ricerca di successo nasce proprio dal movimento opposto a questo.” Nessuno ci insegna questo inchino. Ci viene insegnato che siamo i nostri bisogni, e che non possiamo essere dentro di noi, ma solo fuori da noi stessi, negli altri, in ciò che ci rappresentano, in ciò a cui ci servono. Ci viene insegnato che l’importante è il fare: pensiamo a come questa visione domini nel discorso politico, che appunto si riduce ad essere un discorso di seconda mano, per rifarci alle parole di Guido Mazzoni, privo di un vero e proprio nucleo di idee ma ricco di proposte, spesso contrastanti, spesso incoerenti, spesso di breve mirata. Fare, disfare, cambiare, senza un proposito, senza ascoltarsi. La dittatura dell’immediato e dell’effimero, un’assoluta mancanza di propositi.
In questo solco si inserisce il discorso che David Foster Wallace pronuncia alla cerimonia delle lauree al Kenyon College, nel 2005. A un certo punto Foster Wallace dice: “Nella mia esperienza immediata, tutto tende a confermare la mia profonda convinzione che io sia il centro assoluto dell’universo, la più reale e vivida e importante persona che esista. Raramente pensiamo a questa specie di naturale, fondamentale egocentrismo, perché è qualcosa di socialmente odioso. Ma in effetti è lo stesso per tutti noi. È la nostra configurazione di base, codificata nei nostri circuiti fin dalla nascita. Pensateci: non c’è nessuna esperienza che abbiate fatto di cui non ne siate il centro assoluto. Il mondo, così come voi lo conoscete, è lì davanti a voi o dietro di voi, o alla vostra sinistra o alla vostra destra, sulla vostra TV o sul vostro schermo. E così via. I pensieri e i sentimenti delle altre persone devono esservi comunicati in qualche modo, ma i vostri sono così immediati, urgenti, reali.”. E ciò è indiscutibile, ma necessita di essere discusso nel momento in cui la convinzione di essere “il centro assoluto dell’universo” divenga un pretesto per affermare che, di conseguenza, questo universo esiste esclusivamente in funzione del suo centro, in funzione nostra. Non è così: l’universo, ha, attualmente, all’incirca sette miliardi di centri, ed è bene che essi sappiano creare una rete, porsi in dialogo fra di loro e con il mondo che abitano, indagandone le istanze e i movimenti. Quasi giunto alla conclusione del discorso, Foster Wallace dice: “Se siete automaticamente sicuri di sapere cos’è la realtà, e state operando sulla base della vostra configurazione di base, allora voi, come me, probabilmente non avrete voglia di considerare possibilità che non siano fastidiose e deprimenti. Ma se imparate realmente a concentrarvi, allora saprete che ci sono altre opzioni possibili. Avrete il potere di vivere una lenta, calda, affollata esperienza da inferno del consumatore, e renderla non soltanto significativa, ma anche sacra, ispirata dalle stesse forze che formano le stelle: amore, amicizia, la mistica unità di tutte le cose fuse insieme. Non che la roba mistica sia necessariamente vera. La sola cosa che è Vera con la V maiuscola è che sta a voi decidere di vederlo o meno”. In breve: sappiamo in che società viviamo, ma sta a noi decidere cosa e soprattutto come pensare, se pensarci come i destinatari di una fortuna che ci è dovuta, o come parte di un sistema vitale, di un dialogo in evoluzione. Non siamo il centro dell’universo, ma del nostro universo.
Cani guaiscono lontano.
Mariangela Gualtieri, Quando non morivo
Dicono a me «Attenta! Attenta!»
allora mollo la stretta del pensiero
e sento la mia anima grande fino ai cani
che non guaiscono più.

Ecce cor meum è la sezione che apre l’ultima raccolta di Mariangela Gualtieri intitolata Quando non morivo. Il cuore della poetessa ha una voce carezzevole che racconta di animali di silenzio, creazione, divinità domestiche, specie con orchi e animali estatici per poi riposare in un requiem. Questa globalità, e la pienezza di sguardo, ci hanno fatto pensare a Rilke e alla definizione di aperto nella sua Ottava elegia. L’aperto (das offene) è, per Rilke, semplificando, ciò che è esterno a noi e che fatichiamo a vedere, in quanto a differenza degli altri animali i nostri occhi, i nostri solamente, sono rivoltati all’indietro, e in un certo senso proteggono l’aperto dall’essere accessibile in sé: possiamo accedervi solo attraverso delle forme costitutive interiori, degli schemi e delle tracce che ci permettano di leggerlo. Vediamo l’esterno dall’interno, motivo per cui non possiamo vedere un aperto in sé, ma al massimo un aperto per sé, e cioè per noi. Siamo chiusi nell’orizzonte del nostro intelletto, ed è riservata a creature come i bambini, ai loro lunghi silenzi, e agli animali la facoltà di accedere all’aperto in quanto tale. Da qui l’importanza che la poesia di Mariangela riserva a questi due mondi. L’aperto, infatti, è un nessun dove senza negazioni, puro, non sorvegliato, che si respira, che si fa infinito e non si brama. Appartiene ai bambini prima che gli adulti li costringano alle figurazioni; agli animali selvaggi liberi da morte; agli anziani quando stanno per morire e guardano fissi là fuori, vedendo l’oltre; agli amanti ma solo per un istante: negli occhi dell’amante vediamo il riflesso dell’aperto che è dentro di noi ma noi stessi, subito dopo, lo oscuriamo. Si è sempre di fronte a questa dimensione ma mai dentro. Solo perdendo il riflesso si può essere qualsiasi cosa. B.M. D’Ippolito dedica un capitolo di un suo saggio al tempo del dicibile, intitolandolo Corpo esistenze mondi in R.M. Rilke, e afferma che nel poeta, per l’uomo, l’essere nel mondo si restringe al sentire: “Ma per questo soltanto chi oserebbe già essere?”. L’uomo, dunque, in Rilke esiste, nel senso che è posto fuori dall’Essere, “dal cosmico spazio in cui ci dissolviamo”. Con uno slittamento ardito e deviante, Heidegger estrapola e utilizza i concetti di Centro e Gravitazione, che procedono dalla relazione dell’uomo con l’aperto: l’aperto è il non-limitato rispetto a cui si definisce la posizione dell’uomo: “La limitazione all’interno del senza-limite è prodotta dal rappresentare umano”; così Heidegger riporta il chiarimento rilkiano di questi rapporti: “L’animale è nel mondo. Noi invece gli stiamo innanzi […]”. Col termine “aperto” non s’intende il cielo, l’aria e lo spazio. Anch’essi sono, per chi li osserva e li considera, “oggetti” e quindi “opachi” e chiusi. “L’animale, il fiore sono ciò che sono senza rendersene conto, e hanno, innanzi a sé e sopra di sé quella libertà indescrivibilmente aperta che forse ha il suo equivalente in noi (in modo del tutto momentaneo) soltanto nei primi momenti d’amore, quando l’uomo vede nell’altro, nell’amato, la propria immensità”. In Rilke, l’uomo vive di fronte all’aperto la propria esclusione: “Spettatori sempre […] è sempre come fossimo nell’atto di partire”. Così, abbiamo domandato a Mariangela se con la poesia, o con uno sguardo specifico, tenero, attento, questo aperto, lo si possa percepire e vivere, seppur per un momento, per aprirsi al mondo senza necessariamente sentirsi soli o nostalgici, “[…] Tutto / si gettava negli occhi, si imponeva / in forme, in tinte, tutto c’era. / Invecchiava”. Nostalgia / definitiva nelle scarpe – nel cuore. / Solo nostalgia – restava”. “Bisogna essere cauti con la tenerezza e non farla precipitare in eccessiva morbidezza”, racconta Mariangela affermando, subito dopo, che l’amore per lei è sempre la più grande potenza terrestre e cosmica, una forza fisica, “e dunque ci dev’essere fortezza anche nella tenerezza”. C’è qualcosa nell’espressione artistica che a volte ci porta fuori dal mondo dell’esperienza e “ci fa intuire un altro ordine di grandezze” in cui sono racchiusi i bambini, i folli, gli animali e gli amanti, elenco a cui Mariangela aggiunge le piante, l’acqua, la terra. “I fiori, ad esempio, sembrano provenire da questo grande misterioso aperto, sembrano rispondere ad una legge che si impara cantando, si impara profumando. Tutto è così fortemente vivo e contemplante che solo la nostra cecità può farci credere d’essere migliori di tutti gli altri viventi. Sì, si può essere poeti che scrivono poesie, ma si può anche essere poeti che leggono in modo ispirato, e dunque si può partecipare a questa sorta di delirio della poesia anche come attenti lettori. Per questo esiste l’arte, in tutte le sue forme e modi”.
Procedi piano. Lascia che la mano
Mariangela Gualtieri, Quando non morivo
esegua il fragile dettato.
Abbi fede in quel niente
che viene – quel niente
che succede.
Non prendere la parola.
Lascia sia lei da sola. Diventa tu
la preda. Sia lei che ti cattura.

Tra le varie forme d’arte, con riferimento a quella pittorica, abbiamo pensato ad Amedeo Modigliani perché nei suoi dipinti c’è un rivolgimento di sguardo, la ricerca di quel centro emotivo che Mariangela trova nelle sue poesie. Gli occhi dei volti che ritrae paiono ciechi, orbite svuotate che in realtà si rivolgono verso l’interno secondo l’antica formula dello “specchio dell’anima”. Privi di pupille, gli occhi venivano giustificati dall’autore con l’incapacità di descrivere ciò che egli non poteva conoscere: l’anima degli uomini. L’unica eccezione fu Jeanne Hébuterne, l’amata. Alberto Scerbo, in un suo articolo sugli Sguardi vuoti di Modigliani, analizza il percorso del pittore e l’utilizzo delle sue figure che si distaccano sempre più dalla realtà per approdare su un piano ideale e che, grazie alla neutralità dello sfondo, sembrano lievitare nel nulla pur rimanendo in rapporto con la realtà, culminando così in una “riorganizzazione del linguaggio secondo misure interiori”. In ogni ritratto traspare la sublimazione dell’individualità, in molti quadri i personaggi appaiono raffigurati con un occhio solo e Modigliani spiega che un occhio guarda il mondo, l’altro dentro di sé. Quindi risulta irrinunciabile il legame con la realtà, sia nella sua esteriorità fenomenica, sia nella dimensione dell’individualità interiore, da cui emerge la proiezione in uno strato di più radicale profondità, che supera il limite dell’analisi psicologica e oltrepassa il pericolo della deriva nichilistica, per adagiarsi nell’incontro con “l’in sé” dell’uomo. Nel percorso di Amedeo Modigliani si passa da processo di spersonalizzazione del soggetto, e quindi dalla presentazione di un’immagine priva di espressività, collocata in uno spazio assente e senza tempo, alla comparsa di ritratti con la marcata delineazione delle sopracciglia e penetranti occhi scuri, che rappresentano la fine del travagliato viaggio nella coscienza quando l’artista riesce a entrare nell’anima altrui. Il Modigliani, in cui “tutto il divino scintillava […] solo attraverso una tenebra” ha aperto un leggero squarcio nel buio e nel suo ultimo auto-ritratto ci ha inviato l’immagine dell’unico Modigliani riconosciuto da sé stesso, ovvero il pittore, l’artista, “colui che vive tra l’essere e il non essere, che guarda il mondo ma si specchia nella propria anima, che è aperto alla vita ma dialoga già con la morte”. “Gli occhi di Modigliani sono finestre iconiche, squarci fra la realtà e qualcosa che non entra nella nostra idea di ragione e di realtà”, commenta Mariangela Gualtieri quando le domandiamo se la sua poesia possa essere dipinta con gli occhi del Modigliani e se contenga in sé un tentativo di legare il fuori al dentro, e quindi al sentire, o ancora come possa concretizzarsi il suo ribaltamento di sguardo nelle parole. “L’idea di sentire, di compiere quel tentativo, a ridosso della precipitazione poetica non è del tutto appropriata. È uno stato difficile da definire perché c’è allo stesso tempo obbedienza e sfrenata libertà”. Una libertà che al giorno d’oggi può considerarsi un’altra piccola rivoluzione, una libertà che Zygmunt Bauman in Modernità liquida spiega con le parole di un filosofo: “Come ebbe a osservare Arthur Schopenhauer […] sentirsi liberi da restrizioni, liberi di agire in conformità ai propri desideri, significa raggiungere un equilibrio tra i desideri, l’immaginazione e la capacità di agire: ci si sente liberi nella misura in cui l’immaginazione non supera i desideri reali e nessuno dei due oltrepassa la capacità di agire”. “Non sono mai così libera come quando scrivo e allo stesso tempo così obbediente ad una sorta di dettatura che ha tutta l’aria di venire da fuori”, prosegue Mariangela facendo riferimento a molti poeti che hanno affrontato questo tema, Dante per primo. “Tutto può racchiudersi nell’idea di dono di cui parla Paul Celan, di poesie come doni”, Le poesie, sono altresì dei doni /doni per chi sta all’erta. / Doni che implicano destino (Paul Celan, La verità della poesia, Einaudi). Per Mariangela il dono è quindi “scoperta, accoglienza di qualcosa che sembra regalato, che sembra venire da fuori”, e la capacità di ricevere senza smania di capire o cercare altro, – affidandoci a ciò che il fuori da noi ci dona, – potrebbe contenere in sé un’altra delle nostre piccole rivoluzioni a cui Mariangela aggiunge le sue, le più importanti. “Non ce n’è una sola. La prima riguarda sicuramente la capacità di astenersi, dunque un non fare, ed è la rivoluzione che ci porta al silenzio, alla contemplatività e alla compassione. Poi c’è la rivoluzione che riguarda la lingua, il battersi contro la mortificazione della lingua, verso un’accuratezza di linguaggio che è per me una delle imprese psichiche più alte. E la terza, che mi pare di perseguire fin dall’adolescenza, fare di questo mondo un mondo più armonico, pacifico, accogliente, nel quale ogni vivente – pianta, animale, acqua, terra, aria, luce – sia rispettato. Questa è la mia giusta battaglia e, ovviamente, comincia da me”.
Abbiamo forse assaggiato
Mariangela Gualtieri, Quando non morivo
un’acqua di comete
e resta celebrata in noi
tutta la turbolenza delle alture
quell’aspirare ad una magnitudine
tanto immensa che forse solo
la giovinezza, solo solo
l’agonizzante
può reggere dentro sé.
In copertina: Donna con cravatta nera – Amedeo Modigliani, 1917