Intervista a Demian, tatuatore romano

Demian è un tatuatore romano. Ha iniziato a coltivare l’amore per i tatuaggi parallelamente ai suoi studi liceali; conseguito il diploma artistico, ha trasformato questa passione in un mestiere. Spinta dalla voglia di scoprire i segreti di quest’arte, come da migliore tradizione, sono andata in bottega. Demian mi ha infatti aperto le porte del suo studio e là, fra disegni, confezioni di inchiostro e ronzii sospetti, mi ha raccontato il suo lavoro, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua carriera. A voi il resoconto, nero su bianco, di questa bella giornata.
Abbiamo appuntamento alle due di pomeriggio, di un pomeriggio torrido e senza un filo d’aria, come i giorni di fine luglio sanno essere. Lo studio si trova in un budello, stretto e lungo, nel cuore di Roma. Trastevere non è solo un quartiere, ma un modo di vivere: è la signora che ancora si affaccia alla finestra per chiacchierare con la vicina del palazzo di fronte; è il tacco che ti si incastra nel sanpietrino, e il “signorì, che vole ‘na mano?” che lo accompagna; è l’ex voto, la madonnina che trovi nascosta in qualche angolo, è il fregio scrostato, i tetti bassi, i fili lunghi, pieni di lenzuola. Il negozio di Demian non poteva trovare collocazione migliore, penso mentre suono al suo campanello.
“Fa un caldo allucinante oggi, eh?”, mi accoglie salutandomi. Devo essere madida di sudore, se la prima frase che mi rivolge è proprio questa. Il mio imbarazzo sembra quasi prendere corpo, da quanto è tangibile. Il suo sorriso però è rassicurante, e il tono – con un smaccato accento romano – mi fa sentire a casa.
Ci accomodiamo nel suo studio, un ambiente di passaggio di piccole dimensioni. L’unica parete è tappezzata di disegni, tutti bozzetti a matita o a penna, alcuni acquerelli: volti di donna, animali, qualche oggetto. Mi colpisce il profilo di una ragazza, gli occhi allungati, un neo sulla guancia sinistra e una massa di capelli a incorniciarle il lineamenti duri, gli zigomi pronunciati. È uno schizzo davvero molto bello, e, sedendomi, mi chiedo come sarà stata la sua traduzione in inchiostro su pelle, su quale parte del corpo – e soprattutto di chi – l’avrà tatuata. Mi rendo sempre più conto di essere entrata in un mondo, una realtà che fino a questo momento ho guardato da fuori, con quel misto di attrazione, fascinazione e paura proprio di un bambino perso a contemplare il mondo miniato e incastrato in una palla di vetro, di quelle che se le scuoti vedi i blocchi di neve sciogliersi in minuscoli frammenti di poliestere. Ecco, io sono quella bambina, e oggi il suo studio è la mia sfera magica.
Demian si siede di fronte a me, su un trespolo alto, accanto il lettino e un macchinetta vuota. Parrebbe quasi di essere entrati in una sala di un centro estetico, se non fosse per il ronzio, inconfondibile, proveniente dall’altra stanza. La radio in sottofondo ne attutisce il suono, non riuscendo però a sovrastarlo completamente. Tiro fuori il telefono dalla borsa e gli chiedo se posso registrare la nostra conversazione. Demian, si mette e si toglie il cappellino con la visiera, toccandosi ripetutamente i capelli a spazzola, le attaccature imbiancate. Mi dice solo: “È un classico”, e non capisco se sia un sì o un no. Nel dubbio, premo play. Si parte.
1. Posso chiederti come e quando hai deciso che saresti diventato un tatuatore, com’è nata questa passione? Quando hai iniziato a tatuare?
Ho studiato al liceo artistico, al Caravillani (liceo artistico romano, n.d.r.), là ho imparato ad amare l’arte, e ad appassionarmi al disegno; nella mia scuola poi c’era un ragazzo – che non stava nella mia classe, ma che conoscevo bene – che a un certo punto ha deciso di abbandonare gli studi per inseguire la passione per i tatuaggi; è da lui che, preso il diploma, ho iniziato a muovere i primi passi, cominciando a tatuare. All’inizio disegnavo da lui a tempo perso, quando ero libero da altri impegni; poi, piano, piano questa mia passione ha preso sempre più forma, diventando di fatto il mio mestiere. Vedi, questo non è un lavoro che scegli di fare, uno di quelli per cui ti svegli la mattina e dici: “Io nella vita voglio fare il tatuatore”, ci caschi dentro, perché fa parte di un mondo a sé, un mondo che, nel tempo, impari a conoscere, che diventa il tuo stesso stile di vita. Di solito ciò che ti spinge, che ti fa avvicinare di più a questa realtà, è la passione per il tatuaggio, nel senso proprio di “vederselo addosso”. Da questa passione può scattare – ma non è detto che accada – la molla di un’altra passione, quella del tatuare. Ti viene la voglia di provare, di tatuare con le tue stesse mani. Da là inizia tutto. Certo, un minimo devi essere portato, devi saper disegnare…
2. Scusami se ti interrompo, ma a questo proposito vorrei porti un’altra domanda, da ignorante: che differenza c’è fra il disegnare su carta e il disegnare su pelle?
Sono tecniche, come tante altre. La tecnica del disegno a matita non c’entra nulla con quella del tatuaggio, sono proprio due cose distinte. L’affinità fra le due sta solo nel fatto che se già parti dall’essere una persona creativa, che sa disegnare bene, è più facile che impari anche a tatuare. Ma puoi imparare la tecnica del tatuaggio così come a fare mille altre cose: a dipingere a tempera, a olio, a usare gli acquerelli. Perché hai la testa, e hai la creatività, capisci? Naturalmente, il tatuare fa un po’ eccezione, perché, vuoi o non vuoi, è un tipo di arte permanente, resta là, sulla pelle di chi si tatua.

3. Ecco, hai appena definito il tatuare come “un tipo di arte”; trovo anche io che lo sia, a tutti gli effetti, che si debba parlare di “arte del tatuaggio”, voglio dire. Malgrado questa mia personale convinzione però noto che ancora si fa molta fatica a definirla tale. Tu cosa pensi al riguardo?
Secondo me ci sono proprio diverse correnti di pensiero: c’è chi vede il tatuaggio come un elemento simbolico, chi invece lo vede come una vera e propria forma d’arte. A questa seconda categoria trovo però che ci si arrivi solo dopo diverso tempo, dopo un lungo percorso. Mi spiego meglio: di solito chi inizia a tatuarsi lo fa quasi sempre ricercando l’aspetto simbolico del tatuaggio; all’inizio ti tatui qualcosa che per te ha un forte significato, che ha un valore affettivo; non capita sempre, certo, ma nella maggior parte dei casi è così. Tutto ciò non ha propriamente a che fare con l’arte, perché ci si potrebbe tatuare potenzialmente qualsiasi cosa a cui la persona singola attribuisce un valore. C’è però un secondo step, una seconda fase, entrato nella quale questa singola persona comincia a vedere il tatuaggio non più come un mero oggetto simbolico, ma, appunto, come una forma d’arte. Si inizia a inseguire quest’arte attraverso il proprio corpo. In questo caso sì, il tatuaggio diventa arte. E ognuno la insegue con il proprio stile: tradizionale, giapponese, maori, polinesiano…
4. E tu come sei arrivato a dire: “Questo è il mio stile, questo è il mio tratto”?
Sicuramente ci sono arrivato perché era quello che in primis mi piaceva di più farmi, o meglio, farmi fare addosso. Poi, personalmente, sia come artista che come fruitore, non ho mai amato molto il disegno dal vero. Non mi hanno mai convinto gli artisti che sono abituati a fare la copia para e patta, perfettamente identica all’originale. Quelli magari li definisco dei geni della tecnica, che non sanno però tramettermi molto altro, al di là delle loro indubbie capacità tecniche. Nei tatuaggi – come in altre forme d’arte – di solito chi insegue questo modus operandi non è di molte idee. Ecco, io preferisco la creatività alla tecnica. Questo non vuol dire che l’esecuzione dev’essere scadente, deve sempre essere buona; se, partendo da una buona esecuzione il tatuatore è poi in grado di mettere in pratica un’idea originale, allora secondo me si arriva davvero all’arte, tornando al discorso di prima.

5. E se, poniamo il caso, nel tuo studio si presenta un cliente che magari ha le idee piuttosto confuse, o che ti propone un’idea che a te non convince, o che vuoi in parte modificare, come arrivi poi all’esecuzione, al prodotto finale?
Nel mio stile, che è il tradizionale, puoi disegnare in questa chiave (mi mostra la parete tappezzata di suoi disegni) quasi qualunque cosa. Resta comunque un tatuaggio “fine a se stesso”. Questo finché non entra a far parte di un lavoro più complesso, non “interagisce” con altri disegni, con altri tatuaggi. A quel punto anche il tatuaggio che ti posso fare io entra a far parte di un unicum, e lo deve fare armoniosamente. Ma se non si arriva a questo punto, io potrei disegnarti addosso qualsiasi cosa. Di solito poi, a meno che il cliente non sia proprio in preda a una confusione totale, si presenta sempre con un’idea, anche abbozzata. In questo caso, secondo me un bravo tatuatore dovrebbe discutere con lui in merito alla posizione in cui tatuare quest’idea, consigliandogli quella, a suo giudizio, migliore. Vuoi o non vuoi, nel prodotto finale ciò che conta di più è l’aspetto estetico. Se il tatuaggio a quella persona in quella posizione sta male, diventa qualcosa di esteticamente brutto, di disarmonico. E qua entrano in campo moltissimi fattori, tutti soggettivi. Mi spiego: il tatuaggio, per quanto rustico possa essere, può essere la cosa più figa del mondo, se fatto bene, nella giusta posizione e nel giusto modo; può diventare davvero qualcosa che esalta la personalità di una persona. Al contrario, se alcuni di questi fattori (tipo di pelle, colore, posizione, tratto etc.) non vengono presi in considerazione, il risultato può essere una cagata, scusa il francesismo (ride). Se vuoi arrivare al dire – o al farti dire –: “Ammazza che figo ‘sto tatuaggio!”, non puoi esimerti dal prendere in considerazione tutti questi elementi.
6. E quante volte guardi la spalla, il braccio, la gamba di qualcuno e ti chiedi: “Perché?”…
Eh, in questi casi entra in ballo anche solo il buon gusto, del tatuatore tanto quanto del cliente, che non si vende né si compra (ride). C’è e ci sarà sempre chi, poniamo, se si vuole fare una scritta va dal tatuatore sotto casa, solo per comodità, mi segui? Ma c’ha ragione! Se per lui un tatuaggio vale l’altro va bene così.
7. Qual è – se c’è – il confine fra il “tatuabile” e il “non-tatuabile”; quand’è, in altre parole, che decidi di rifiutare una proposta? Ritieni di essere mai sceso a compromessi con le esigenze/richieste di qualcun altro?
Trovo che si tratti di un confine spesso molto sottile, perché si gioca sul quanto riesci a scendere a compromessi con te stesso, con il tuo mestiere e con la tua esperienza, e con le esigenze del cliente. Mi è capitato diverse volte di rifiutare di tatuare delle idee proposte da alcuni clienti. Ma anche perché, il tuo lavoro, sul corpo degli altri, va in giro, le persone lo guardano. Se pur di guadagnarci qualcosa mandi in giro un lavoro che magari ti fa schifo, a rimetterci se tu tatuatore, capisci?
Di solito se parlando con il cliente capisco di avere dei margini di manovra, porto a termine il lavoro, altrimenti accanno (letteralmente: “lasciare perdere”, in romanesco, n.d.r.).
8. Cos’è che invece stimola la tua, di immaginazione? Da dove prendi le tue idee?
Io disegno sempre, quindi credo di ispirarmi un po’ a tutto ciò che mi circonda. Di solito poi propongo ciò che produco, magari mettendo i miei disegni su Instagram. A me piace molto rendere nel mio stile anche i soggetti più semplici e comuni, come un’aquila, o qualsiasi altro elemento. Non è detto poi che tutto ciò che disegno decida di tatuarlo. A volte mi capita per esempio di disegnare qualcosa che mi piace moltissimo, ma che sento di non voler tradurre in tatuaggio. Non chiedermi perché, non lo so nemmeno io (ride).

9. E secondo te, ad oggi, le persone si tatuano solo per moda, o lo fanno anche per una questione artistica?
Il fatto che vada di moda non è da non prendere in considerazione. Sarebbe ipocrita dire che la gente si tatua solo per inseguire questa “corrente artistica”. Come dicevo prima, il tatuaggio normalmente è qualcosa che si vede, che “esponi”, quindi di fatto è strettamente connesso con l’estetica, è legato all’immagine. Fino a un po’ di tempo fa il tatuaggio era ancora molto legato a un aspetto quasi esclusivamente simbolico, poi, come tutte le cose, si è evoluto; quindi sì, sicuramente è diventato anche un fenomeno di massa. Il tatuaggio, come i vestiti, le scarpe etc., segue le mode. Un occhio esperto per esempio può collocare temporalmente un tatuaggio in un determinato decennio a seconda del disegno, della tecnica, perché, appunto, anche il tatuaggio è soggetto alle mode.
10. Citando le parole di Gian Maurizio Fercioni, secondo il grande maestro la capacità del tatuatore sta nel saper far affiorare sulla pelle ciò che è già insito in ognuno di noi, i nostri vizi, le nostre virtù, i nostri odi, i nostri amori, le nostre bugie: per te cosa deve fare – e imparare a fare – un bravo tatuatore?
Il pensiero di Fercioni è sicuramente romantico, poetico, ma non sono completamente d’accordo; o meglio, io tendo sempre a giudicare il lavoro. Secondo me un bravo tatuatore è quello che sa essere completo. Personalmente, i colleghi che stimo di più sono quelli che sanno avere una visione il più ampia possibile, quelli che sanno parlare di tatuaggi, che sanno argomentare; magari poi sono specializzati nel loro, hanno il loro stile, ma sono in grado comunque di spaziare, hanno una visione d’insieme. Questo non vuol dire che il tatuatore debba essere un tuttofare, anzi. Credo che il tatuatore intellettualmente onesto sia colui che, se vede che una richiesta avanzata da un cliente non corrisponde alle sue capacità tecniche (al suo stile), ti manda da qualcun altro, non è quello che si improvvisa. È come al ristorante: se vai in un ristorante e vedi un menù con cento piatti difficilmente quello sarà indice di buona qualità, perché difficilmente saranno cento piatti ben eseguiti. Un bravo tatuatore vola basso, ma vola bene.
11. Il tema del mese della nostra rivista è “la pelle”: cosa significa per te ricoprire la propria pelle di tatuaggi? Ti sarà capitato numerose volte immagino di sentirti dire che ti sei “rovinato”, che la pelle invecchierà, diventerà rugosa, e i tuoi tatuaggi faranno altrettanto: cosa hai replicato – se ti è capitato – a queste critiche?
Guarda, credo sia un discorso già di per sé molto complesso, quello del tatuarsi e del decidere di ricoprire il proprio corpo – magari anche completamente – di tatuaggi. È complesso perché è estremamente soggettivo, come ogni forma d’arte, tornando al discorso delle arti. Certo che mi è capitato di sentire dire, a me o ad altri, che così facendo ci si rovina, ma posso dirti sinceramente come la penso? Io manco le prendo in considerazione queste persone. Ognuno del proprio corpo fa ciò che vuole. Poi, tornando invece al discorso dell’estetica e del buon gusto, dipende sempre come le fai, le cose. È come per la chirurgia plastica, ci sono casi e casi: quella persona che ha convissuto con un complesso sul proprio naso, e che decide di rifarselo per stare meglio con se stessa, e quella che magari non avrebbe bisogno di rifarsi nulla e che si rifà da capo a piedi. Giudicare negativamente una cosa a priori secondo me è sempre sbagliato. La chirurgia, come i tatuaggi, essendo un qualcosa che lavora sull’estetica, può aiutare a migliorare il tuo aspetto, ti può abbellire. Nella mia carriera per esempio mi è capitato più volte di sistemare con un tatuaggio qualcosa che creava disagio nel cliente, come una cicatrice. Se posso aiutare qualcuno a superare un problema, ben venga. Bisogna fare buon uso di tutto, anche dei tatuaggi. Tutto può essere bello o brutto, a seconda anche del punto di vista di chi giudica, dei propri parametri, e anche della mano a cui ti affidi. Poi, è chiaro che quando arriverò a ottant’anni il mio braccio sarà tutto rugoso, e così i tatuaggi che mi sono fatto… sarà una merda (ride)! Ma lo sarà anche un braccio di un ottantenne senza tatuaggi, capisci? Bisogna sapersi accettare, con o senza tatuaggi rugosi!

12. Secondo te che stimoli deve avere oggi un giovane che aspira a fare il tuo mestiere?
Il mondo di oggi – con tutte le nuove tecnologie annesse e connesse – è un palcoscenico su cui tutti si possono esibire: dai cani ai fenomeni. Non voglio fare un discorso denigratorio e completamente avverso al mondo di internet e dei social, anche perché sono stato e sono tuttora il primo a trarne vantaggio per il mio lavoro. Quello che intendo dire è che bisogna stare molto più attenti, in guardia, perché di fregature in rete che ne sono molte, anche nel mio ambito. Quindi, per prima cosa – e questo vale allora come ora – un ragazzo che aspira a fare il mio mestiere secondo me dovrebbe mettersi bene in testa che non sono i due o tre anni di pratica che ti rendono un tatuatore professionista. Devi sgobbare tanto. In seconda battuta, facendo un discorso più improntato all’attualità e al mondo virtuale, un ragazzo che vuole fare il tatuatore così come un ragazzo che si vuole “solo” tatuare deve avere gli occhi ben aperti, per saper distinguere una bufala da un prodotto di qualità. Io dico sempre, ognuno ha il tatuaggio che si merita. Se hai addosso un bel tatuaggio è perché di partenza hai buon gusto e hai l’occhio allenato, così come se invece hai una ciofeca è perché ci capisci poco e niente, e allora ti meriti quella ciofeca là, c’è poco da fare. Se poi vuoi tatuare di mestiere, l’allenamento costante – nel guardare i lavori degli altri come nel fare i tuoi – per me è una prerogativa, qualcosa che non andrebbe nemmeno consigliato, perché dovesti saperlo già di tuo.
13. Se dovessi guardarti indietro, cosa diresti al Demian che si affacciava al mondo dei tatuaggi? Una critica e una nota positiva.
Una nota positiva, una cosa che in parte oggi rimpiango anche, è che quando ho iniziato tatuavo esclusivamente per l’arte, per passione, perché non c’era lucro. Quando poi si inizia a guadagnare con la propria passione, sai, le cose cambiano, inevitabilmente; diventa un lavoro a tutti gli effetti. E con il lavoro arrivano anche i problemi, le scocciature a cui stare dietro. Quindi se proprio dovessi dirne una, direi che l’aspetto positivo del Demian esordiente era la sua spensieratezza. Di contro, la critica, la nota negativa, sta nel fatto che – crescendo soprattutto – mi sono sempre più focalizzato, appunto, sull’aspetto del guadagno, sul fatto di voler far diventare la mia passione un mestiere. Questo non vuol dire che ad oggi io tatui solo per guadagnarci, anzi. Per me tatuare è un bisogno talmente profondo che se per qualche settimana non lo faccio mi manca, mi sento strano, come se mi mancasse un pezzo.
Mi ritengo una persona molto fortunata; malgrado le scocciature che indubbiamente ci sono – perché fanno parte di qualsiasi mestiere – mi sveglio la mattina, apro il negozio e sono felice, perché ho realizzato ciò che ho sempre voluto fare. E cosa c’è di meglio di lavorare – e guadagnare – con la propria più grande passione?

Dopo più di due ore di intensa chiacchierata, con le mascelle un po’ slogate e le gole un po’ secche, ma con la testa piena di nuovi stimoli, premo stop, salvo l’audio, infilo il telefono nella tasca della borsa, guardo Demian che, alzandosi, continua a giocherellare con la visiera del cappello, la schiena appoggiata alla porta dello studio, mi segue con lo sguardo. “Spero di esserti stato utile, scusami se ho parlato troppo”, mi dice muovendosi verso l’ingresso. Lo seguo, e lo rassicuro. Vorrei riuscire a dirgli che non si deve scusare affatto, vorrei riuscire a dirgli che, anzi, gli sono immensamente grata per avermi dato quest’opportunità. Ma, come mio solito, non riesco quasi mai a esprimere le cose belle. Gli mando un messaggio più tardi magari, penso mentre vedo rientrare le sue colleghe, uscite per il pranzo. Una delle due, passandomi davanti, mi fa un sorriso largo, ha i denti grandi, il viso dolce e il petto ricoperto di rose stilizzate. Esco fuori, l’aria è ancora bollente, ma ho il cuore felice. Proprio bella questa sfera magica.
Maldestra? Bellissima e bravissima