Dopo l’uscita del suo ultimo libro (La città dei vivi, Einaudi), abbiamo parlato con Nicola Lagioia. Rincorrendolo tra una libreria e l’altra del centro di Torino, abbiamo discusso di confini, d’innocenza, e di voci.
Libreria “L’Ibrida Bottega” — Nuovo Ponte Regina Margherita
Sembra che la città stia per crollare su se stessa, lasciando intravedere una città anteriore. Poi un’altra città ancora più antica di quella. […] Se la pioggia dovesse continuare, ci sarebbe da scommettere, i vecchi dèi riprenderebbero possesso del luogo. […] Per chi abita qui la fine del mondo c’è già stata, la pioggia ha solo il fastidioso effetto di rovesciare dal bicchiere un vino che in città si beve di continuo.

Come sei arrivato a questa voce così forte che si sprigiona quando parli di Roma? È stata la storia di questo omicidio a fartela scoprire, o è la storia il risultato di questa tua tendenza a una Roma interiore. Sentivi già di possedere questa prosa? È stata un’esplosione.
Vivendoci. Io vivo a Roma da ventidue anni e dopo un po’ capisci come è fatta una città. Questo omicidio è uno di quei fatti talmente eclatanti da rivelare qualcosa anche del luogo in cui avvengono. È più facile che un omicidio del genere succeda a Roma rispetto che a Parigi o da qualche altra parte, perché a Roma c’è una grande permeabilità delle classi sociali. Roma è un po’ come Napoli, dove i Quartieri Spagnoli cadono proprio sul centro, mentre ci sono altre città che sono organizzate con dei quartieri molto distinti, con delle classi sociali che non vengono mai in contatto tra di loro. Roma invece fa incontrare persone che altrimenti non si sarebbero mai incrociate tra di loro. A un certo punto del libro parlo del Mondo di Mezzo. Il Mondo di Mezzo a Roma esiste da sempre, perché da sempre a Roma tutti quanti trovano il modo d’incontrarsi con tutti – addirittura gli imperatori romani li andavi a ripescare nella suburra. Quindi, se io abitassi a Roma da sei mesi difficilmente avrei potuto scrivere questo libro così come l’ho scritto. Questo non toglie che la Roma che racconto possa sembrare anche parzialmente inventata, perché è il mio personale sentimento della città. Se prendi la Roma di Fellini e la Roma di Pasolini sono due città completamente diverse. È anche cosa fa lo stesso posto a persone diverse, sensibilità diverse, in momenti diversi.
Io mi sentivo proprio dentro a questa vicenda qua. Se stai veramente immerso a un certo punto sai cosa devi fare. Poi richiede lavoro, richiede impegno, richiede stare lì giorni e giorni a scrivere, ma diciamo che ci devi stare prima tu con i piedi e fino al collo, lì dentro. Allora poi lo puoi raccontare così.
Trattando l’argomento del confine tra non-fiction e fiction, ti è capitato di tramutare le persone che raccontavi in “personaggi”? Sei riuscito a rimanere dove volevi stare tu o avevi la percezione che in te si stessero creando dei personaggi interiori?
Non so se ci sono riuscito ma ho cercato. Quando racconti un omicidio come questo ci sono le persone ancora vive, quindi non serve mettersi a inventare storie o romanzarle troppo. Se racconti un fatto vero è poco rispettoso. Certo, quel fatto lì è filtrato attraverso la tua sensibilità, e quindi quello dà una sorta di unicità. Che è diverso se lo stesso caso l’avesse raccontato un’altra persona.
Per quanto riguarda il tramutare le persone in personaggi interiori questo succede anche con le persone che ci stanno a cuore, i nostri amici o genitori. Noi abbiamo un’immagine di loro che ovviamente non potrà mai essere giusta. Qual è l’interpretazione autentica di una persona? Neanche la persona stessa l’ha di sé. Neanche noi di noi stessi possiamo dire chi siamo veramente; anzi, certe volte abbiamo bisogno del riscontro di qualcun altro perché ci riveli qualcosa di noi che neanche sospettavamo. Sicuramente, come succede a tutti, anche gli individui protagonisti di questa storia, a un certo punto, in me sono diventati dei personaggi con delle caratteristiche definite. Questo è inevitabile per il modo in cui noi leggiamo il mondo. Per esempio un’amica di Marco Prato che sentii per telefono mi disse “Marco con me è sempre stato bravissimo, una specie di angelo. Non dico che non abbia partecipato a questo omicidio, ma io ho avuto l’esperienza di una bella persona. Tu non potrai mai entrare da quell’ingresso perché tu sei entrato dall’omicidio,” mi ha detto lei. E pure lei in effetti ha ragione, perché se io dovessi pensare: cosa succederebbe se il mio migliore amico o la mia migliore amica andassero in galera dopo aver commesso un omicidio? Io continuerei a volergli bene. Certo, mi farei tutta una serie di domande, quello sì, però questo come modificherebbe la mia esperienza? La modificherebbe ma non in maniera radicale: continuerei a volergli bene. Siamo persone – appunto – complesse. Il fatto che commettiamo del male non vuol dire che non siamo capaci di bene. È questa la cosa che ci mette spesso in crisi. Mentre il discorso pubblico tende ad assolutizzare queste visioni: sei un assassino e allora non puoi aver fatto cose buone. E invece no: anche Totò Riina vuole bene ai suoi figli, per esempio. Ciò non toglie che sia colpevole, che sia il capo della mafia e debba andare in galera; ma non puoi non riconoscere anche nel carnefice un’umanità. Non per alleggerirgli la pena o la responsabilità, ma per un’onestà di racconto.
In una lezione alla Scuola Holden che hai tenuto qualche anno fa, parlavi del fatto che Bolaño ha dovuto cominciare a litigare coi suoi padri letterari per poi superarli o accettarli, o smarcarsene. Allora mi sono chiesto come ti sei mosso tu a livello personale nello strutturare questo libro, nel sapere che avevi a che fare con dei riferimenti letterari piuttosto precisi.
Meno precisi di quello che può sembrare. Perché poi uno istintivamente pensa ad A Sangue Freddo di Capote e all’Avversario di Carrère, ed è sbagliato. Sono due libri talmente distanti. Sì, si occupano entrambi di un omicidio, in entrambi i casi c’è lo scrittore che è diventato amico o conoscente dell’assassino. Ma come romanzi sono due cose talmente diverse tra loro, come lingua e struttura, che secondo me non andrebbero accostati al di là dell’oggetto. L’Italia è piena di questa scrittura ibrida: Primo Levi con Se questo è un uomo racconta un fatto di realtà con gli strumenti della letteratura; Curzio Malaparte con La Pelle fa la stessa cosa con la Napoli appena liberata dagli americani. Non me li sono studiati tutti quanti, li avevo un po’ a memoria, ma ovviamente senza aver avuto questi grandi esempi del passato sarebbe stato difficile mettersi all’opera. Forse avendo superato anagraficamente l’età della ribellione il problema dei padri è un po’ superato.
Nuovo Ponte Regina Margherita — Libreria Therese
[...] un colpevole che non ha più strumenti per riconoscersi tale intacca l’idea stessa di colpa, di responsabilità, dunque di scelta, che cosa bisognava fare per evitare che questi concetti […] cominciassero a corrompersi anche in chi li reputava fondamentali?

Una cosa che colpisce immediatamente, nel libro come nella vicenda, è l’assenza quasi totale delle madri. Tu a cosa hai attribuito questa assenza?
Sì, ci sono delle assenze che sono sonore ancora di più delle presenze. Secondo me, questi tre silenzi sono silenzi diversi.
Il silenzio della mamma di Foffo sta nel fatto che, in quella famiglia, ritengono che sia il principio maschile a doversi mettere in prima linea e quindi a dover prendere la parola. Nel caso di Luca Varani, invece, mi sembra che siamo di fronte a un’altra cosa: un silenzio doloroso, dignitosissimo. Lì è Giuseppe Varani che si accolla il compito di dover parlare con i media, che non è una cosa necessariamente piacevole da fare in un contesto simile. Altre assenze sono assenze propriamente fisiche, oltre che assenze di dichiarazioni, ed è nel caso della mamma di Marco Prato. Marco spera tutto il tempo che sua madre venga a trovarlo in carcere, ma lei non c’è. A cosa imputare quest’assenza? È troppo arrabbiata con suo figlio? È troppo addolorata? Io questo non lo so. Senza mai fargliene una colpa, Marco attribuisce al silenzio della madre tutta una serie di buchi affettivi che lo segnano fin dall’adolescenza.
Io mi sono domandato cosa sarebbe successo se avessero parlato le madri. Chissà se questa storia non sarebbe andata in maniera diversa. Non ovviamente nel segno di impedire l’omicidio, ma nel dopo: magari queste tre famiglie avrebbero avuto più speranze di comunicare tra di loro. Perché un’altra caratteristica del caso è che tra queste tre famiglie non ci sono stati rapporti, è una cosa di cui il padre di Luca Varani si è lamentato molto.
Ovviamente, queste donne non avranno parlato per motivi rispettabilissimi che io non intendo sindacare, chissà però se lo avessero fatto… magari sarebbero riuscite a trovare una linea, un ponte, una capacità di dialogo che invece è mancata.
Interrogàti sulla doppia vita di Luca, molti dei suoi conoscenti si dicono indignati: lo ritengono un modo di gettare fango su Luca e farlo passare dalla parte del torto. Da questa storia emerge una certa difficoltà a problematizzare le vittime: perché siano vittime, abbiamo bisogno che siano pure e perfette. Che ne pensi?
In realtà, Luca è dalla parte della ragione qualunque cosa abbia fatto. Però io capisco anche gli amici che cercavano di contrastare questa versione dei fatti. È comprensibile, perché l’ipotesi della doppia vita era stata strumentalizzata da altri per dire “se l’è cercata” — una cosa orrenda che bisogna combattere in tutti i modi. Luca è la vittima innocente, indipendentemente dalle luci o le ombre della sua vita. Voglio dire, siamo tutti esseri umani, tutti quanti abbiamo un lato in luce e un lato in ombra, a volte siamo più ombrosi o più luminosi, ma tutto questo non può minimamente giustificare la possibilità che qualcuno ci torca un capello, o che ci inviti a casa propria con l’inganno e poi cominci a colpirci con la violenza con cui è stato colpito Luca. Quindi sì, l’invito è a considerare sia le vittime che i carnefici come delle persone complesse, con delle contraddizioni, ma ciò non toglie che gli uni siano vittime e gli altri siano carnefici.
I media però appiattiscono molto questo discorso. Lo si vede in tutti i casi di stupro o di violenza sessuale: c’è sempre qualcuno che dice “se l’è andata a cercare per com’era vestita”. Di Luca Varani si è detto “se l’è andata a cercare perché si prostituiva”. Secondo te, ci sono possibilità che il discorso pubblico migliori sotto questo punto di vista?
La vedo difficile, per alcune questioni oggettive. Per esempio, come fanno i giornali a investire sulla qualità? Vendono sempre meno copie, hanno costi sempre più gravosi e quindi hanno sempre meno risorse a disposizione. Siamo in una situazione abbastanza faticosa da questo punto di vista. Dall’altro lato, la disintermediazione dei social li rende luoghi in cui accadono sì cose interessanti, ma dove a volte succedono le cose più selvagge e vengono dati i giudizi più lapidari, come anche questo caso ha dimostrato. Quindi io non vedo una schiarita all’orizzonte per quanto riguarda la possibilità da parte dell’informazione di andare più a fondo in queste questioni. Anche perché si ritiene che sbattere il mostro in prima pagina paghi, e quindi si sbattono mostri in prima pagina.
Primo di pasta al pomodoro, frittatina alle verdure, acqua naturale e pane.
In un mondo che reputiamo costruito su basi sin troppo materiali, fatichiamo a credere che la parola conservi i suoi poteri magici.

La tragicità di questa storia sta in un paradosso: l’incapacità di ricondurre a sé l’autodeterminazione di un atto atroce. Come se quell’atto avesse oltrepassato i confini della comprensione di chi l’ha commesso. Uno dei volti che questo paradosso assume è la lingua: Manuel Foffo cerca di dimostrare la propria capacità di controllo nell’uso del linguaggio. È un discorso che emerge anche nelle ultime pagine, quando accenni alla tua corrispondenza con lui. Come te lo sei spiegato, ragionando sul caso?
Ognuno di questi personaggi, in fondo, non è chi vorrebbe essere. E il linguaggio è una delle lenti con cui questa cosa si manifesta. Per esempio, la lingua di Manuel è molto semplice: Manuel è ossessionato dal fatto che qualcuno possa rappresentarlo per ciò che lui non si sente di essere. Manuel Foffo vorrebbe svoltare, mostrando al padre di essere in gamba, ma non ci riesce; si incaponisce con questa app, che probabilmente non porterà da nessuna parte. Marco Prato vorrebbe essere una donna: si sente male nel suo corpo, però al tempo stesso fa palestra. Entrambi sono ossessionati da quello che il mondo esterno dice di loro: e qui, penso, sta la risposta alla tua domanda. Questo controllo linguistico deriva dalla paura che il mondo esterno ti giudichi e ti rappresenti; che ti racconti in maniera diversa da come tu ti senti. Solo che è normale: il mondo esterno svolge sempre una sua narrazione. In loro invece questa tensione è insostenibile. Marco Prato si suicida perché — così scrive nel suo bigliettino d’addio — non sopporta la pressione mediatica. Manuel Foffo continua a ribadire la sua eterosessualità. L’attenzione che dirigono verso le parole degli altri li distrae dall’unica cosa che bisognerebbe fare in una situazione del genere: riflettere sull’atto di cui ci si è resi responsabili. Per loro è come se l’opinione del mondo esterno valesse di più del giudizio che tu dovresti avere su te stesso, visto che sei stato capace di qualcosa che non ti ritenevi in grado di compiere. E sebbene di solito noi siamo portati ad avere un interesse tollerante verso le debolezze e le mancanze altrui, in questo caso non possiamo tirarci indietro. Perché si tratta di una debolezza colpevole, di una fragilità colpevole.
Nella parte centrale del libro, Il Coro, rielabori la voce di molte persone. Come hai lavorato sulla costruzione di questi discorsi? Perché si nota una sorta di schema ricorrente, in cui chi parla annuncia dapprima il suo ruolo e la sua posizione nel mondo, per poi circoscrivere il proprio ruolo nei confronti della vicenda.
Ho messo insieme un po’ di cose. Da una parte, sono domande che ho posto io; dall’altra, ho unito quanto raccoglievo nelle mie interviste alle deposizioni rilasciate ai carabinieri. Per me la caratterizzazione di queste voci era importante, perché in poche battute si riusciva a inquadrare il personaggio. Secondo me è interessante per capire quale sia il loro posto nel mondo. Anche se poi magari questo posto viene smentito dalle cose che raccontano.
In questo modulo narrativo ho ritrovato il Bolano di Detective Selvaggi. Tu stesso, nella parte più intima del testo, introduci il tema del riscatto, rispetto alla tua storia personale. Ecco, quanto sei stato tentato di riscattare questa storia attraverso lo strumento-letteratura?
Questo io non lo so. Mi sono fatto molte domande, scrivendo queste righe. Chissà quale sarà l’effetto del mio lavoro. Io mi sono chiesto che cosa può fare questo libro di fronte a questa vicenda. Può portare consolazione? Può aggiungere dolore al dolore? Può liberare? Ovviamente, io spero che abbia un potere trasformativo positivo, catartico. Però questo è un auspicio, un tentativo, lo sforzo che ha guidato la scrittura. Poi io non posso sapere se il mio intento si tradurrà in realtà. Non lo posso dire io.

Nota: Tutte le citazioni sono prese da La Città dei Vivi di Nicola Lagioia, Einaudi editore, 2020.
In copertina: Eruzione delle Souffrier Mountains nell’isola di San Vincenzo, William Turner, 1815