Bontempelli ha voluto produrre nuovi miti venendo incontro alle esigenze di fantastico di un pubblico sempre più cittadino e cosmopolita. Invece di rendere implausibile il mondo, ha voluto rendere plausibile il fantastico. E ha proposto un inverisimile quotidiano, una specie di fantastico normalizzato. (G. Guglielmi).

Fondare il fantastico.
Per Guglielmi, quindi, la narrazione fantastica non agisce sul mondo. Bontempelli agisce sul fantastico, che è un immaginario silenzioso ma presente, rendendolo verosimile. In questo saggio (Tradizione del romanzo e romanzo sperimentale) Guglielmi si riferisce soprattutto ai tre romanzi centrali (a livello cronologico) della carriera di Bontempelli, successivi all’afflato futurista: Il figlio di due madri (1929), Vita e morte di Adria e i suoi figli (1930) e Gente nel tempo (1937), ristampato a Settembre da Utopia Editore (nuova realtà editoriale di cui parliamo qui).
In Gente nel tempo, infatti, il fantastico segue le leggi della Poetica di Aristotele: ciò che parrebbe inverosimile, in realtà, non esula da ciò che può accadere; e per questo è realistico, perché estremizza, come sa fare ogni grande narrazione, uno scenario concreto, maneggevole, che tace. Ciò che questa storia denuncia – ciò che possiamo individuare come tema – non è la dannazione, e nemmeno la magia invisibile, o la forza traslucida potere; il tema è, piuttosto, la memoria della mortalità. Non è un tema immediato: nel testo si parla di molto altro, dall’inettitudine di Silvano al tradimento di Vittoria, dall’ambiente della provincia italiana alla prima guerra mondiale. Ma la scoperta della mortalità è la vera ossessione, la vera rivelazione. Quanto si ripetono i membri della famiglia Medici, dopo la morte della Gran Madre e di Silvano, si può racchiudere in un semplicissimo: moriremo. Passa quasi in secondo piano una scena, in questo senso, essenziale: Narcisa che, nella seconda parte del romanzo, ricorda a Dirce e Giuliano che gli uomini, lei compresa, sono tutti condannati; e non solo la famiglia Medici.
Memento Mori.
E non è forse questo un tema, oggi più che mai, tangibile? Ricordarci che una fine, silenziosa, ci attende? Noi che, ormai, vorremmo superare il carbonio per rinascere nel silicio.
Non a caso è il tema di un’altro grande universo narrativo contemporaneo, come quello di Houellebecq. Il libro di Bontempelli si può leggere, dunque, come un memento mori alla società dei primi, grandi consumi (siamo negli anni ’30, compare nel testo già la geografia ampia di una Milano nebbiosa); è un’icona che ricorda la fine, Gente nel tempo, che scandisce le tappe di una linea retta confondendo il verso della vita con quello della morte. Il titolo stesso, che, come è emerso anche dal salotto letterario di Utopia (qui il link), pone spesso problemi esegetici, si può interpretare in questo modo: la gente è nel tempo perché decide di esserlo. «È a forza di anniversari che il tempo se ne va tanto presto» così di nuovo Narcisa.

Il linguaggio proietta i personaggi nel tempo, e il castello astratto delle parole diviene immediatamente una prigione, che ha la lingua come causa efficiente. È qui che vorrei porre in contrapposizione questa espressione del tragico con una visione più contemporanea, cui accennavo prima, quella di Houellebecq. Ne La possibilità di un’isola, sin dall’inizio, Daniel ci mette in guardia: non fidatevi della parola. Bontempelli pare affermare il contrario: la parola è un talismano, dalla sua forza non si fugge; la parola è numero, simbolo, totem. È un discorso che il Novecento declina in maniere diverse, fin dalla volontà prettamente espressiva delle avanguardie storiche. Tuttavia le radici sono antiche. Si oscilla sempre, infatti, fra le opinioni partorite dalla riflessione filosofica greca, fra Gorgia (la parola che inganna), Socrate (nominalismo) e Cratilo (naturalismo). Ma la forma di queste possibili posizioni nei confronti del rapporto fra mondo e linguaggio ha sempre sfumature nuove, siccome il linguaggio si fa nel tempo, e muta e si amplia e si mutila:
«Anni, anni, anni sono uguali, vuoti, e all’ultimo troviamo che sono fuggiti rapidi […] il tempo, discesa di fatti minimi; se vi getti dentro un’avventura intensa, lo ingombri e lo scompigli, intorbidi il ritmo, gli togli ogni verità, è una disperazione».
Bontempelli, in questo, è seguace dei classici, non senza il filtro del surrealismo: fidatevi della parola, fatevi ingannare, proprio come suggeriva Gorgia agli spettatori della tragedia antica. Il lettore di queste pagine subisce la stessa passione dei protagonisti, dopo la celebre profezia della Gran Vecchia, «Del resto, nessuno di voi morirà vecchio», per scoprire soltanto alla fine che chi ha il potere, nei momenti più difficili, improvvisa. I personaggi, dopo il primo capitolo (in cui è presente una voce narrativa forte, sovente ironica e plastica) sembrano recitare un copione, una sceneggiatura (del resto, Bontempelli fu anche un grande autore teatrale, come Pirandello). Nel corso della narrazione sembra di assistere alle scene di una recita: poca importanza ai luoghi, alle descrizioni dei volti e dei gesti; il focus va tutto sul discorso e sui dialoghi, come nella tragedia sofoclea. Una recita in cui restano sempre meno protagonisti, finché non vige il dominio dualistico di Dirce e Nora (destinato tuttavia a soccombere anch’esso).

Dopo il silenzio.
Finalmente Bontempelli torna in libreria. E bisogna farlo parlare, farlo uscire dal silenzio. E, dal momento che i libri bisogna farli anche dialogare, mi pare sensato proporre un altro parallelismo (poi mi fermo, lo giuro): prendiamo l’opera di Dürrenmatt. Ne La morte della Pizia si esprime lo stesso concetto ricordato qui dall’abate Clementi: perché misurare gli oracoli, perché domandare il futuro? L’unica salvezza per l’uomo è il non conoscere, o meglio «Non importa morire. Importa non sapere quando. L’ignoranza è la giovinezza. Di mano in mano che uno un poco lo sa, lui se ne va. La vita è essere incerti, Dirce, la vita è non sapere, non sapere né dove né quando uno va, Dirce». E tuttavia, in Dürrematt, il collasso della tragedia si risolve nel grottesco, nel tragicomico (non sempre, del resto, pensiamo a La Promessa), così come avviene in tutto il post-modernismo, dove, per citare I Fisici, la vicenda di Antigone sarebbe risolta dai segretari di Creonte. In Bontempelli invece le nuove forme del tragico non subiscono l’erosione della risata; l’ironia – che non manca – è inferiore, e sa quando arrestarsi: è un’ironia tragica, consapevole della sua minorità all’interno del discorso. È un’ironia della lingua (alquanto leggera, per la materia trattata, estremamente novecentesca: con quei «persona» per «corpo»), che non incide in nulla sulla trama. In questa metafisica rovesciata (non dimentichiamoci che Bontempelli era vicino a De Chirico e Savinio, il post-feta) il tragico non coincide nemmeno con l’inconscio, nonostante la scena del sogno di Dirce (scena importante ma non essenziale nel meccanismo narrativo) le inevitabili influenze che le esperienze artistiche coeve (nonché la riflessione psicoanalitica di quegli anni), espressione della stessa episteme.

Attualizzare il tragico.
Qui il tragico è, precisamente, nell’assenza di uno sfondo metafisico. L’abate Clementi, come il protagonista de La Panne (ancora Dürrenmatt) non può indicare Dio quale autore della condanna nella famiglia Medici (tant’è che il furor religioso di Dirce collassa, nel finale) e non si può nemmeno pensare a un ritorno alla volontà di Apollo, oracolare e sicura; perché l’oracolo qui nasce dagli uomini (e non, come nel caso di Sofocle, dalla strumentalizzazione che gli uomini fanno della parola divina); dalle ossessioni astratte degli uomini. L’oracolo collassa, ma trova sempre un modo per agire. Non è forse, questo, l’inverosimile che si rende verosimile?
La prima menzogna non sono le parole della Gran Vecchia. La prima, tragica menzogna è ciò in cui ci ostiniamo a credere; è il Tempo: «che cos’è il tempo è diventato chi è il tempo. Più precisamente: siamo noi stessi il tempo? (M. Heiddeger, Il concetto di Tempo)».