Warhol incontra Netflix
Pensando al concetto di loop e alle sue applicazioni nell’arte, abbiamo trovato interessante riflettere sulle origini della sua espressione più comune: la serie. Indagando le varie forme della serie, tracceremo un percorso che va dalle serigrafie di Andy Warhol alle serie tv della nuova generazione dell’intrattenimento. Cercheremo inoltre di esplorare le ragioni che spingono il pubblico ad apprezzare la serialità nell’arte come nelle storie, addentrandoci in quella dimensione, concretizzata da Andy Warhol nelle sue opere, che conferisce agli elementi della vita di tutti i giorni un’importanza e una dignità nuove.
Andy e la Factory
Andy Warhol è indubbiamente uno dei massimi esponenti delle avanguardie tardo novecentesche; padre putativo della Pop Art, fondatore della Factory e di molte altre realtà di successo, è anche uno degli artisti che meglio ha saputo ereditare e rielaborare i messaggi primonovecenteschi – di cui le Avanguardie Storiche si fanno portavoce – e uno di quelli che ha mostrato – criticandole e consacrandole – le conseguenze della società dei consumi, figlia del Secondo Dopoguerra.
Nato nella decadente città industriale di Pittsburgh da una famiglia di immigrati cecoslovacchi, Warhol scopre fin da molto piccolo la passione per l’arte; in seguito a una grave malattia da cui viene colto, la madre gli regala l’occorrente per disegnare, portandolo così a scoprire la sua vocazione. Albino, estremamente cagionevole, timido e insicuro, rivela ben presto un’abilità organizzativa, una tenacia e una capacità d’osservazione al di sopra della media. E sono proprio queste qualità che lo portano a New York, dapprima dedicandosi a una vita di successo nel mondo della pubblicità, e poi portandolo ad abbracciare quello dell’arte visiva, del cinema e della nascente televisione. È la commistione di queste passioni che fa sì che fondi una realtà eclettica come la Factory, diventata negli anni punto di ritrovo di diversi volti celebri. E è sempre alla Factory che prendono forma le sperimentazioni più audaci e destinate a segnarlo nell’alveo degli artisti più noti e apprezzati del pianeta: dalle serigrafie, alle produzioni cinematografiche, toccando perfino il mondo dell’editoria e del giornalismo con la fondazione della rivista Interview.

L’arte è quotidiana
Questi molteplici campi d’azione costituiscono di fatto le basi e fanno da sfondo per la sua produzione prettamente artistica, che non potrebbe essere compresa – o almeno non in tutte le sue sfumature – senza ricondurla alla sua attiva partecipazione alla vita mondana dell’America – e della New York – degli anni Cinquanta e Sessanta. Warhol amava dire di essere come una lavagna su cui si evidenziavano i segni del suo tempo, senza per questo necessariamente commentarli, o giudicarli. Sembrerà forse assurdo sottolinearlo ora – ora che l’artista è assurto a una delle figure più provocatorie e ciniche della sua epoca –, ma sì, Warhol non si riteneva un provocatore, quanto piuttosto un attento osservatore, un efficiente registratore. È in quest’ottica che dev’essere interpretata l’interezza e il senso ultimo della sua operazione artistica, ivi compreso il ricorso quasi costante al principio di serialità, e alla tecnica della serigrafia. È la superficie delle cose che interessa all’artista, le cose “così come sono”, riprodotte in serie, esattamente come in serie vengono prodotti e poi messi in vendita i beni di consumo, che riempiono gli scaffali dei supermercati. È quella società dei consumi, dei prodotti di massa, che dev’essere celebrata, che deve assurgere ad arte, assumendone piena dignità e riempiendo anche le sale dei musei. Se buona parte degli artisti a lui contemporanei è ancora alla ricerca dell’originalità, della creatività nelle proprie opere – e vede ancora questi come canoni di riferimento – Warhol si pone sull’altro versante, in aperta opposizione – oseremmo dire polemica, non ce ne voglia – con i coevi. È la celebrazione del non-originale, del non-creativo, del quotidiano che il pubblico vuole, e che apprezza. È in questo spirito che riproduce – anche cinquanta e più volte nella stessa tela – immagini molto note come i volti di Marilyn Monroe, di Liz Taylor, di Mao, ma anche fotografie di incidenti stradali, di sedie elettriche, di suicidi. Erano e sono tutte immagini che, al di là del portato ideologico, accompagnano e influenzano la vita di tutti. Tutto è pop, perché tutto è popolare, perché è ciò che è ricercato dal popolo, fa parte dei proprio orizzonte e delle proprie aspettative. La gente vuole narrazioni semplici, schemi di riferimento facilmente decifrabili e altrettanto facilmente accessibili, e fruibili. La società dei consumi produce Coca-Cola in serie, infinite quantità di barattoli Campbell’s, di fusti di detersivo Brillo? E allora l’arte non può esimersi dal farlo, mostrandoci – con un’espressione trita e ritrita – la “nuda realtà dei fatti”, svuotata di qualunque significato possibile: “Penso a me stesso come un artista americano: mi piace qui. Penso che sia bellissimo. […] Sento che nella mia arte rappresento gli Stati Uniti ma non sono un critico sociale. Io mi limito a dipingere questi oggetti nei miei quadri perché sono quelle cose che conosco meglio. Non sto cercando di criticare gli Stati Uniti in alcun modo, non sto affatto cercando di mostrare qualche bruttura. Sono solo un artista puro, credo”. Nelle sue serigrafie dunque non c’è traccia di critica sociale, di vena polemica. C’è la realtà. Ciò che il pubblico consuma, che guarda, in televisione, al cinema, ci sono i divi, ci sono i politici, ci sono perfino i fatti più sconvolgenti, come la morte, la malattia mentale, il suicidio. L’arte – forse per la prima volta nella storia, almeno in modo così “conclamato” – diventa democratica. E questo, secondo Warhol, è uno dei massimi benefici del consumismo americano, il fatto di aver reso tutto accessibile: “Ciò che è grande riguardo a questo Paese è che l’America ha incominciato la tradizione in cui il consumatore più ricco compera essenzialmente le stesse cose del più povero. Puoi stare guardando la TV e vedere la Coca-Cola, e puoi sapere che il presidente beve Coca, Liz Taylor beve Coca, e tu pensi che anche tu puoi bere Coca”. Tutti godiamo della freschezza della bevanda, che sarà la stessa per il presidente degli Stati Uniti così come per la cassiera che la vende al supermercato. Il prezzo non cambia, il gusto non cambia, la sua riproduzione artistica – in una serie potenzialmente infinita – nemmeno.

Serie o ripetizione?
Potremmo chiederci allora – sulla scia della “serie potenzialmente infinita” appena menzionata – cos’è che differenzia la serialità dalla mera ripetizione. Una tela di Warhol non è in fondo la ripetizione di uno stesso volto, di uno stesso oggetto o di una stessa scena? E qua c’è il colpo di genio, l’ago nel pagliaio. La serigrafia infatti intesa tecnicamente – giuriamo che non vi ammorberemo con eccessivi minuzie – consente di riprodurre la stessa immagine – o meglio, la stessa silhouette – variando nell’aspetto cromatico, donando quindi alla stessa figura sfumature, tocchi di luce e di colore sempre diversi e sempre nuovi. A ben guardare infatti, le serie di Warhol non sono mai costituite da rappresentazioni identiche. Come diceva l’artista infatti: “Tutte le mie immagini sono la stessa cosa… ma sono anche molto diverse… cambiano con la luce dei colori, con il momento e con l’umore”. Sono sempre uguali e, allo stesso tempo, sempre diverse. E risiede forse qua una prima possibile risposta alla nostra domanda iniziale: perché la serialità del e nell’arte attrae il pubblico?
Non sarà forse questo “uguale, ma diverso” ad appassionare e ad attrarre così tanto gli spettatori, attraversando i secoli e giungendo fino ai giorni nostri?
Se così fosse, Warhol sarebbe senza dubbio uno dei primi ad aver sondato, scoperto e messo “in opera” il potere della serialità, ovvero della ripetizione votata al mutamento. L’essere in fieri, insomma. Lo schema narrativo solido e ben strutturato, che rispetta le aspettative del pubblico, ma che in esso propone contenuti sempre nuovi, nuove e inaspettate sfumature semantiche. E non è questo, tornando al discorso di partenza, che in fin dei conti propone il mondo della pubblicità e dei consumi? Bombardare i fruitori proponendo sempre lo stesso prodotto, e allo stesso tempo rinnovandolo continuamente. L’arte forse non ha fatto altro che constatare, accettare e inglobare questo bisogno di voracità, costante, crescente e sempre più rapido, che le persone hanno imparato a coltivare, facendolo rientrare appieno nel proprio stile di vita, se non in un suo stesso principio fondante. È ciò che vogliamo? O che l’arte desidera essere, un fast food culturale? A questo sarebbe difficile fornire una risposta esaustiva. Di certo, l’amato Andy ha avuto il coraggio – e in parte la sfacciataggine – di porre il quesito che, pur nelle sue varie evoluzioni, è arrivato fino a noi.

Da Edmond Dantès a Genni Savastano
Se nell’arte il regno del non-originale nasce con Warhol, nella narrativa questo regno sussiste da molto più tempo. Nei primi dell’Ottocento, il Journal des Débats fa uscire, ogni domenica insieme al giornale, il primo romanzo d’appendice (feuilletton). Inizialmente relegato a sottogenere letterario, il romanzo d’appendice riceve col tempo il contributo di grandi della letteratura quali Honoré de Balzac e Alexandre Dumas padre, per non parlare di James Joyce, Carlo Collodi, Charles Dickens e Fedor Dostoevskij. Le opere da loro pubblicate in appendice contribuirono grandemente a dare notorietà a questi autori. Immaginate le edicole della metà del XIX secolo prese d’assalto da milioni di lettori, impazienti di scoprire come Edmond Dantès ha intenzione di vendicarsi di Danglars; immaginate i più piccini, attaccati alla gonna della madre e pronti a non fare altri capricci in cambio delle nuove avventure di Pinocchio.
Facciamo un salto ai giorni nostri e chiediamoci chi non abbia almeno una volta atteso, con un genuino morso alle budella, le nuove avventure di Iron Man, Walter White o, perché no, del commissario Montalbano. Tutti noi abbiamo un’ossessione legata a una narrazione seriale, sia essa il fumetto di Topolino, il nuovo film di Animali Fantastici, l’ultima stagione di Gomorra, o le tre assieme. La bruciante passione dell’essere umano per il già noto è stata esplorata da Warhol con la sua arte e trova ampio sviluppo nell’industria dell’intrattenimento del XXI secolo. La lunga storia del racconto seriale non ha mai conosciuto un’epoca di maggiore cura estetica e filosofica di quella in cui ci troviamo adesso. Questo si deve all’enorme investimento che gli odierni player dell’intrattenimento hanno fatto su serie tv e saghe cinematografiche. I motivi sono principalmente tre: uno intellettuale, uno emotivo e uno pratico. Il motivo intellettuale deriva dalla dignità artistica che, a partire dagli anni Ottanta è stata finalmente riconosciuta a quelli che una volta erano definiti in Italia gli “sceneggiati” e che adesso vantano l’impiego delle più grandi star del cinema, nonché dei migliori sceneggiatori e registi in circolazione. A livello emotivo si assiste a un forte riemergere delle fandom, trasformatesi da fenomeni di nicchia a comunità attive e ben disposte a spendere i loro risparmi in prodotti legati al loro mondo narrativo preferito. La motivazione pratica deriva invece dalla crisi della televisione e dell’esperienza cinematografica, soppiantate dalle piattaforme streaming e dalle nuove modalità di fruizione dei prodotti d’intrattenimento (smartphone, tablet, pc). Questi vari pezzi si uniscono a formare un panorama dalle caratteristiche piuttosto definite, oggetto di studio delle scienze sociali, ma anche e soprattutto degli stakeholder dell’intrattenimento.

Consumare noi stessi
L’offerta culturale ha iniziato ad essere alla portata di tutti con il cinema e da lì è diventa sempre più fruibile passando dalla televisione e arrivando nelle tasche di ogni individuo dotato di smartphone. Oggetti sempre più comuni, popolari, idolatrati dai consumatori perché capaci di contenere interi mondi. La felicità sembra davvero a portata di mano se si pensa alle infinite possibilità offerte dalla tecnologia all’uomo comune. Se fosse stato questo il decennio di Andy Warhol probabilmente si sarebbe prodigato in serigrafie riguardanti Netflix, l’IPhone, TikTok. Sono questi gli oggetti culturali che legano insieme gli esseri umani e che simboleggiano il consumismo e il potere che questo conferisce a tutti loro, indipendente da chi siano e dove si trovino.
Uno degli elementi che caratterizza l’odierna esperienza di consumo è la dimensione social e di personalizzazione. Le nostre attività si svolgono sempre di più su uno spazio digitale che modifichiamo in modo da renderlo nostro. Sulla scia dell’uguale, ma diverso che ha accompagnato la nostra riflessione, notiamo come questo principio si applichi a molti aspetti della nostra identità: dal profilo Instagram allo smartphone che abbiamo in tasca, dal carrello di Amazon alla lista delle serie da vedere su Netflix. Vorremmo che il nostro spazio online ci rappresentasse, eppure se mettessimo in fila tutti i nostri profili Facebook e li guardassimo da una media distanza ci accorgeremmo subito che si somigliano un po’ tutti. Anche a fare un confronto tra un profilo argentino e uno islandese, entrambi avranno un’immagine principale, una di sfondo, uno spazio dedicato agli stati, uno agli amici, uno alle foto ecc. Siamo ormai abituati a rappresentarci così: uguali, ma diversi. In effetti al giorno d’oggi non c’è niente di straordinario nelle nostre vite social, esse sono tanto concrete quanto gli aspetti più quotidiani della nostra giornata.

Gli eroi del quotidiano
A nostro parere questa caratteristica identitaria dell’uomo del XXI secolo, anticipata dall’arte visionaria di Warhol, rende la narrazione estesa ancora più appetibile ai suoi bisogni culturali. Questo essere orgogliosamente uguali a noi stessi fa sì che la dimensione quotidiana non sia solo presente nelle modalità di fruizione delle narrazioni estese, ma s’inserisca a pieno diritto nella materia della narrazione. Il racconto di archi temporali più lunghi impone un ritmo drammaturgico più lento e lascia spazio all’esplorazione della vita di tutti i giorni del personaggio. I conflitti conquistano l’ambiente lavorativo e quello familiare dando il tempo ai personaggi di essere osservati nel loro quotidiano. Il desiderio dello spettatore di connettere con il suo eroe sullo schermo raggiunge un nuovo livello. Egli è finalmente messo nella condizione di conoscere Walter White tramite il suo modo di fare colazione la mattina, che cambia progressivamente nel corso della serie. L’audience può vedere come Betty, la moglie di Don Draper, si trasformi col tempo mentre le bugie sulla coscienza di lui aumentano. In questo cambiamento graduale sta il vantaggio della narrazione lenta, che si affida ai topoi della vita quotidiana per mettere in scena personaggi più realistici, meno schizofrenici nei loro archi di trasformazione.
La serialità si propone di ampliare le prospettive non solo sugli eroi e antieroi che si collocano al centro della loro narrazione. I diversi mondi che circondano i protagonisti delle serie hanno anch’essi modo di emanciparsi dagli spazi ristretti del film. Per usare una terminologia cara a Luca Bandirali ed Enrico Terrone, se il film è sempre stato paragonato a una finestra sul mondo, un po’ come fosse un dipinto, la narrazione estesa somiglia più a una terrazza o magari a un intero palazzo. Lo spettatore ha la possibilità di osservare le cose da più prospettive. Viene posto di fronte a una serie di punti di vista sul mondo ed è chiamato a sceglierne uno, pur comprendendo la dignità degli altri. Questo avvicina ancora di più la narrazione estesa a un’esperienza di vita reale.

Emerge dunque un pattern, una tendenza che ha il suo inizio con le riflessioni di Warhol e affluisce, carica della storia contemporanea e del progresso tecnologico, fino a noi. Si avverte il forte bisogno, nell’arte come nell’intrattenimento, di dare dignità e concretezza a ciò che in passato si era considerato povero di significato e che invece si pone al centro delle vite degli esseri umani. Questo qualcosa è la quotidianità. Essa prende così la forma di una serie di prodotti culturali che, come i giorni delle nostre vite, sono un loop formato dagli stessi elementi, ma che trova ogni volta il modo di essere significativo, valido, unico. Unisce ciò che amiamo con le difficoltà che vengono con esso. Mette alla prova la nostra morale, ci sfida a compiere delle scelte e al contempo ci invita ad essere comprensivi rispetto a punti di vista alieni al nostro. È familiare, ma non è scontato; è audace, ma non ci aggredisce.
È come siamo noi persone comuni: uguali, ma diverse.