Al St. Thomas A. Beckett Churchyard, Yorkshire, Inghilterra, oppure al cimitero di Casarsa, al Santo Stefano Belbo, o al Forest Hill Cemetery, a Boston. In tutti questi luoghi, scavando, profanando come se ci trovassimo nelle pagine di Amatissima o del Frankenstein, o di un qualsiasi romanzo gotico, beh, forse non troveremmo nulla. Solo terra e vermi e lastre di marmo. Lo scriveva già Jankèlèvitch, d’altronde: “Mio padre non è nel cimitero, dov’è sepolto, è piuttosto al suo tavolo di lavoro e nei libri che mi ha lasciato, nel pensiero che mi ha trasmesso. È in queste cose, non nel cimitero. Nel cimitero, non c’è niente.” E così Sylvia Plath, così Pasolini e Pavese, così Anne Sexton. Non sono lì, sono con noi, ci parlano e occupano i nostri spazi, qui e adesso. Vivono ancora, insieme a tutti coloro che hanno accettato la pericolosità di un mestiere – scrivere – che forse più che un mestiere è un salto nel vuoto, è una forma di accettazione e di rivalsa, è il dibattersi di una vita che arde di desiderio per essere qualcosa più che se stessa. La poesia è il suo lascito, la traccia di quel desiderio.
“Quando scrivi,” diceva Hemingway, “tutto quello che fai è sederti davanti a una macchina da scrivere e sanguinare”. E lo fai perché non puoi fare altro, non c’è alternativa. Non c’è un perché, ma non farlo è inammissibile, non farlo è tradirsi. E da questa consapevolezza nasce, come una scoria, come una secrezione, una scrittura incandescente. Nascono lettere di fuoco, poco importa che non possano più essere pronunciate da chi per primo gli ha dato forma.

Questa scrittura, e in particolare questa poesia – la poesia incandescente – raccoglie vite dissimili, alberi che toccano la pelle, oblii, il sussulto di una rivoltella, un cofanetto-cuore, pieno, che non si può chiudere, raccoglie la strada di Fiumicino e Castel Sant’Angelo, rientrando a Roma, città sofferta e sofferente, su un’Alfa Romeo, e “un gatto bruciato vivo, / pestato dal copertone di un autotreno, / impiccato da ragazzi a un fico” (Pier Paolo Pasolini, Una disperata vitalità). È una poesia fatta di corpo, di carne e sangue. È una poesia pericolosa, la cui carica erotica viene tanto dall’eros quanto dal thanatos – inscindibili forze. È una poesia viva, perché la poesia, come scriveva Eluard, “è nella vita”, e “si trova in compagnia di nude crudità”.
[…]
Sia come si vuole era meglio non essere nato,
Fernando Pessoa, Porto dentro il mio cuore
perché, per quanto interessante in ogni momento,
la vita finisce per dolere, nauseare,
tagliare, radere, stridere
a dar voglia di urlare, saltare, restare per terra, uscire
fuori da tutte le case, da tutte le logiche
e da tutte le pensiline,
e andare a essere selvaggi verso la morte fra alberi e oblii,
fra cadute, e pericoli e assenza del domani,
e tutto ciò dovrebbe essere un’altra cosa
più vicina a ciò che penso,
a ciò che penso o sento, che non so nemmeno
cosa sia, oh vita.
[…]
Stare sdraiata per me è più naturale.
Sylvia Plath, Io sono verticale
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
[…]
eh ho premuto. Ha sussultato al rombo,
Cesare Pavese, La rivoltella
d’un rapido sussulto che mi è parso
scuoterla come viva in quel silenzio.
Davvero mi ha tremato tra le dita
alla luce improvvisa ch’è sprizzata
fuor dalla canna. Fu come lo spasimo,
l’ultimo strappo atroce di chi muore
di una morte violenta. […]
L’incontro con la Plath e la Sexton è stato un incontro di formazione nato da un eccesso di vita, che mi ha spinta anche a scrivere.
Nel suo angolo della disperazione, Alessandra Racca ha ritagliato uno spazio riservato agli inizi in cui germogliano le cose vive, quelle che non hanno coscienza di sé, quelle che iniziano spesso in luoghi di buio. Il suo buio è l’intollerabile. L’intollerabile è sofferenza. La scrittura in versi non è tanto una via di fuga quanto più un bambino che le chiede di restare. La poesia permette di stare nelle cose e stare nelle cose significa anche riuscire a stare nel dolore, la poesia è un modo per sentirsi vivi e sentirsi vivi significa spesso sentirsi sofferenti.
Scrittura e poesia permettono ad Alessandra di mettere in ordine. Scrivere è un modo per essere presenti a sé stessi senza formule date, per esserci, nonostante tutto. Desiderare è accettare di non avere, prima ancora di volere. Desiderare ardentemente ciò che non si possiede permette di dilatare il tempo, scomporlo, ricostruirlo e renderlo attraverso sguardi, suoni, frammenti di ricordo raccolti in un fascio di parole.
Alessandra Racca ha partecipato, assieme ad altre poetesse, alla stesura de La Reggia di Venere, un’antologia al femminile sul desiderio: per desiderare bisogna sentire una forte mancanza e la scrittura permette di compiere questo viaggio interiore nel desiderio che altrimenti non si può estinguere.
Quella mancanza dei “soli tra i soli” che Mario Luzi pone al centro del suo interrogativo rivolgendosi a sé stesso, al suo cuore e gli altri con un palpito che annienta le definizioni, creando un varco che apre all’ignoto e allo spirito critico, al ribaltamento e alla messa in discussione. È così che la mancanza abbraccia la presenza e assume corporeità attraverso le parole.
“Di che è mancanza questa mancanza, / cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / forse viene, / da oltre te / un richiamo / la musica perpetua… ritornerà. / Sii calmo” (Mario Luzi, Di che mancanza è questa mancanza).

[…]
Ho viaggiato per più terre di quelle che ho toccato…
Fernando Pessoa, Porto dentro il mio cuore
Ho visto più paesaggi di quelli su cui ho posato gli occhi…
Ho fatto esperienza di più sensazioni
di tutte le sensazioni che ho sentito,
perché per quanto sentissi, sempre qualcosa mi mancava. […]
Ciò che Alessandra predilige della poesia è il modo in cui le concede di servirsi del linguaggio in maniera evocativa. Un linguaggio che acquisisce forza dalla sua forma, dalla sua musicalità, che travalica il qui e ora. Che vive, s’infila sottopelle e freme, e non appartiene a un solo tempo. La poesia è in più tempi, in più spazi. Le voci di Sylvia Plath, di Anne Sexton, la loro tragicità da cui Alessandra si è sentita chiamare quando ancora era adolescente sono tuttora nostre, si emancipano dalle loro biografie, si fanno altre da chi le scrive, e a volte gli sopravvivono. Le rievochiamo, le riascoltiamo, ci parlano, quindi sì, la poesia travalica il qui e ora, e appartiene all’uomo in quanto lascito vitale di altri uomini, di altre donne.
Giancarlo Pontiggia, in un’intervista, definì la poesia come “il pensiero e il sentimento del mondo che si fa canto”. Ed è in particolare questo canto ad affascinare Alessandra, un canto che si fa punto d’unione tra l’Io e gli altri. La poesia per Alessandra è collettività, è relazione, parola che fluisce nel suono; l’essere letta ad alta voce, l’essere detta, è un lato della poesia che rivela una forma della sua necessità di esistere, ovvero la necessità di esistere nell’oralità, così com’è stato per l’Iliade e l’Odissea prima di Omero, o per i versi di Hafez, che nella Persia del XIV secolo venivano musicati, cantati, ascoltati.
Da qui il coinvolgimento di Alessandra nel giro della poetry slam italiana, che va presa per quella che è, che rigetta il ruolo del poeta vate come voce calata dall’alto e riscopre la dimensione ludica della poesia popolare, che è sempre esistita. Durante una serata di poetry slam capita che i testi siano variegati: può capitare che l’atto performativo predomini sulla qualità della scrittura e che un pubblico di non specialisti giudichi con gli strumenti che possiede, ma è comunque un modo di fare poesia. Esiste la poesia popolare e la poesia colta, quella comica e quella impegnata, quella scritta e quella che tende all’oralità. È bella la varietà, no?
E dire che fu Valèry a scrivere che la poesia vive nella costante “esitazione fra senso e suono”, a individuare nella forza fascinatoria del mèlos, della melodia, un componente costitutivo della forza espressiva dei versi. Alessandra gioca su questa componente sonora, sull’espressione orale, sulle vibrazioni: questa poesia dice questo, e suona così, e se non suonasse così non sarebbe questa poesia, perché il suono è esso stesso significato.

[…]
Ti chiamammo Gioia.
Anne Sexton, La doppia immagine
Io, che non ero mai stata certa
di essere una bambina, avevo bisogno di un’altra
vita, di un’altra immagine che me lo ricordasse.
E questa fu la mia peggior colpa: tu non potevi
curarla o alleviarla. Ti ho fatta per ritrovarmi.
Alessandra Racca ha intitolato il suo blog Signora dei calzini perché le parole che ama stanno dalle parti dei calzini: sono fatte di fili che si intrecciano e compaiono e scompaiono gli uni sotto e sopra gli altri, fra trama e ordito.
I calzini di Alessandra sono colorati, un colore per ogni paio ed un paio per ogni sua esperienza che abbia a che fare con la poesia pop o meno: dalla poetry slam al coro parlante poetico di Torino (PoetiCo), al progetto performativo sulla memoria racchiusa negli oggetti e negli spazi collettivi (InPoetica) a riviste, libri e altre collaborazioni.
Quando Alessandra passeggia, ci sono momenti in cui inizia a sentirsi scomoda; non dipende certo dalle scarpe o da quelle suole più consumate di altre. Esiste un angolo di sconforto che ognuno conosce bene, il suo è quello delle definizioni troppo strette, che imbrigliano le persone e il fluire della vita. Ma se proprio dovessimo dargliene una, in velluto, cashmere o pile, non sarebbe poetessa e neanche scrittrice.
Alessandra Racca si definisce un’artigiana di parole, e lei è più comoda così.
In copertina: La nascita di Venere – Alexandre Cabanel, 1863
Spirito libero… vola alto… 🐞
🙂