
La ri-nascita di un genere.
Talvolta, le circostanze permettono che nascano generi perfetti per il genio di un autore. Così accadde, negli anni ’70, con quel genere che si sviluppò in Italia – grazie a un progetto Rai – delle Interviste Impossibili (che hanno qualcosa dei Dialoghi antichi, qualcosa delle Operette di Leopardi, qualcosa della cultura di massa). A questo format, così sensibile alle nuove istanze del panorama intellettuale italiano, parteciparono da un lato autori di spicco, fra cui Arbasino, Eco, Ceronetti (tutti, in qualche modo, connessi al gruppo 63 o perlomeno alle istanze avanguardistiche), dall’altro interpreti altrettanto noti, fra cui Carmelo Bene, Paolo Bonacelli.
Il canovaccio era il seguente: un autore contemporaneo fingeva di intervistare un personaggio insigne del passato, da Muzio Scevola a Maometto. Un genere siffatto, menzognero e leggero (sebbene non privo di introspezione e profondità), sembra pensato apposta per la penna di Manganelli, il cui lavoro di scrittore si posa, sempre, sulla soglia fra mondi possibili e impossibili, nell’indagine della inevitabile frizione.
I personaggi intervistati da Manganelli non sono, di certo – tolto Tutankhamon, cui però è svuotata ogni grandezza: sono morto a diciott’anni, forse non ho consumato tutta la mia voglia di giocare – i grandi personaggi della storia, o almeno non sono personaggi i cui nomi tuonano (per esempio, ad Arbasino toccò lo spumeggiante e fumoso Nerone; a Manganelli il malinconico, re sconfitto, Desiderio). E di certo non sono quelli con cui un lettore di Manganelli l’avrebbe immaginato dialogare. Dal mondo della cultura latina, per esempio, si presterebbe all’estro avanguardistico di Manganelli (pensiamo anche solo all’esordio di Hilarotragoedia) un autore quale Petronio (e invece c’è Fedro, che infatti afferma: mi sorprende che lei sappia il mio nome, suppongo che lei sappia molte cose inutili).
Oppure, si vorrebbe assistere a un Manganelli che parli con un Joyce (e invece c’è De Amicis, di cui viene sgonfiato, ridicolmente, lo statuto, mettendogli in bocca parole del genere: i poveri sono le brioches dell’anima). Ci aspetteremmo un dialogo fra Manganelli e Proust, in cui si confrontino le idee di una letteratura come menzogna necessaria contro le idee di una letteratura come momento artistico, come apprendistato soggettivo cui tende la vita dei sensi e dei ricordi.
Ma queste Interviste non hanno un valore euristico, e si ingannerebbe chi, leggendo, cercasse in Manganelli un novello Socrate: non c’è maieutica, non c’è verità da svelare, non c’è idea da dimostrare o indagare. Ci sono soltanto mitologie da sfatare, grandezze da de-costruire, figure da problematizzare, tra cui spicca, per esempio, Eusapia Palladino, la quale afferma, fin dall’inizio: ma lei non sa che situazione imbarazzante sia per una medium essere morta.
Interviste, non dialoghi.
Sebbene un’indagine genetica di questo genere possa condurci ai Dialoghi antichi, non bisogna confondere queste Interviste con dei dialoghi, e nemmeno immaginare che A (l’intervistatore), sia guidato da un principio nella sua ricerca. Assente è anche una cornice unitaria che racchiuda, giustificandoli fra loro, i diversi incontri. Si ha invece l’impressione di vagare per quelle terre sincroniche che sono le terre post-moderne, in cui il vivo che dialoga coi morti ha più l’atteggiamento ellenista e leggiadramente tragico di un Luciano che di un Dante, di Varano o del Manzoni di Carlo Imbonati (inteso, ovviamente, come figura, senza alcuna volontà di istituire un paragone fra le due opere).
Si è ancora tuttavia altrettanto lontani dalla violenza di Woobinda (Aldo Nove): qui, in Manganelli, sono la raffinatezza e l’eleganza della lingua, nonché la cortesia della voce, a mitigare il senso di disorientamento che si prova nel mondo contemporaneo, così simile alla paralisi. Il dito di Manganelli, quel «mi scusi, signore» con cui avvicina i suoi interlocutori, somiglia al dito di un intellettuale che indaghi i titolo più curiosi di una biblioteca informe.

Così, le anime impossibili, in questo volumetto (140 pp.) sembrano vivere come i canali di un televisore: significanti intercambiabili, ognuno dotato della propria tragicomicità, dove tuttavia la cornice dell’intrattenimento (che si annuncia sempre nelle prime battute, pensiamo all’intervista di Dickens: Venezia, certo, in-de-scri-vi-bi-le, sa?) viene continuamente smentita e riaffermata, in un gioco di finta dialettica che non si risolve mai in una sintesi: gli epiloghi sono spesso tronchi, e rappresentano il momento più serio del discorso, quello da cui potrebbe nascere una riflessione profonda (Le piace cambiare discorso, dice ancora Fedro ad A) ma appena arriva questo momento, bisogna cambiare canale, passare da un Marco Polo incapace di tornare e restare (come Ulisse) a Casanova, che lentamente riconosce la propria mitomania: non potevo morire, ero già intriso di morte; ero in corpo in fuga così veloce che tutto quello che restava in mano agli inseguitori era un’ombra, enigmatica, odorosa di velluto.
Così Manganelli riesce, pur rimanendo all’interno della più pura letterarietà (pensiamo all’intervista finale con Gaudí, dove si esprime una teoria panpsichista per la quale anche le pietre sarebbero carne) a dialogare non soltanto con i morti, ma anche con il mondo in cui si muove (come altri in quegli anni; pensiamo al reportage radiofonico, sempre Rai, di Piovene), senza tuttavia farsi annullare dalle necessità false che questo mondo sembra imporre a chiunque voglia, in qualche modo, scrivere.
Anime di parole.
Tutti questi personaggi, sempre sul punto di dissolversi, lasciano una impressione finale opposta a quella data dall’interlocutore: da questo oltremondo, nei momenti di maggior sincerità, trapela la nostalgia della vita, di un passato che non vive più in quanto presente; di una vita che quando era vissuta non poteva risolversi in significato, che rimaneva oscura; una vita cui tuttavia la luce della morte non conferisce soltanto chiarezza, ma anche la fine di ogni illusione, la coscienza di ogni piccola e inutile preoccupazione.
Insomma, anche da queste anime di parole (come da quelle della Commedia) trapela una forte nostalgia della pelle; quella stessa pelle di cui Malaparte, così bene, scriveva: «Le pelle, la nostra pelle, questa maledetta pelle: Voi non immaginate neppure di cosa sia capace un uomo, di quali eroismi di quali infamie sia capace, per salvare la pelle. Questa, questa schifosa pelle, vedete?»