È chiaro che questi amici, che queste persone che guardo camminare, che conosco, alle quali voglio bene come ad una parte della mia giornata e di tutto il macchinario, non hanno mai pensato ad una accademia della felicità, non hanno mai cercato di capire la sorte umana e non hanno mai guardato nemmeno il paese e nemmeno gli uomini.
La Macchina Mondiale, Paolo Volponi.
1. Sui narratori.
I grandi narratori sono narratori di idee, prima che di azioni (che significherebbe trambusto), di caratteri (che significherebbe drammaturgia) e di valori (che significherebbe moralismo). Di idee, tuttavia, che si incarnano, di idee in corpi: mai esauste, mai complete, sempre convincenti e mai persuasive. A proposito dell’eccesso di azioni, uno dei problemi del diktat carveriano (il celebre «show, don’t tell») sta, nonostante la bontà del suo significato primario (ovverosia: non essere didascalici, non pensare di avere la verità in tasca), nell’interpretazione letterale che ne viene fatta. Il minimalismo troppo spesso si illude che le idee possano essere racchiuse semplicemente nella metafisica degli oggetti, e il passaggio dalla novità al cliché è fin troppo semplice: quante bottiglie di vino rosso, quante lattine di birra, quante donne «stronze», quanti mariti «coglioni, insensibili»; quanti stereotipi, insomma.
Non vogliamo intendere con ciò che un romanzo ben costruito si riduca all’enunciazione di una tesi o, semplificando Bachtin, alla contrapposizione di tesi fra loro divergenti; anzi. La forza dei narratori veri sta nella capacità di mettere in dubbio le idee esposte dai loro personaggi, pur senza inficiarne la verosimiglianza e, soprattutto, la necessità: se un’idea si può astrarre da un personaggio, allora non ha più valore. Sono idee che, nella loro compattezza, mutano, si formano, ragionano, e soltanto infine si razionalizzano: a posteriori. Pensiamo al Raskol’nikov di Delitto e Castigo (dal superuomo all’uomo pietoso), al Fabrizio del Dongo di Stendhal (dall’assenza dell’amore alla pietà crudele), al Clown di Böll (un mitomane razionale, estremamente ragionevole). Sono personaggi le cui visioni del mondo (senza ridursi mai a didascalie esaustive della realtà) entrano in contrasto con la narrazione: come se la materia narrata si opponesse alla azione narrativa. Questo contrasto, tutto implicito, fra l’immagine del mondo e la scrittura del mondo è il passaggio più delicato, più sottile; un passaggio che troppo spesso si riduce alla mimesi (che sia di un linguaggio, di una situazione, di un problema sociale). Ecco, Anteo Crocioni è un’idea che ha preso un corpo, che si è radicata in un luogo, in un tempo, in una società.

«Tutti hanno idee, ma il difficile sta proprio nel domarle, nel mettersi a tavolino e vincere lo sgomento della carta bianca, l’indifferenza delle parole che non vogliono collaborare, la piattezza delle frasi che escono bell’e fatte, l’ipocrisia delle buone soluzioni» scriveva Flaiano.
Ad aprire oggi (55 anni dopo la prima edizione Garzanti), La Macchina Mondiale di Volponi, si respira l’aria dell’arte: una vera narrazione, un incanto puro, antico e moderno. È un’aria sferzata dall’odore intenso della muffa, siccome i libri usati hanno tutti quest’odore, che ben si sposa del resto con il colore fangoso e giallastro delle pagine. Pagine fragili.
In queste pagine, la visione del mondo prospettata dal protagonista è addirittura un trattato, di cui ci è dato leggere soltanto estratti di questo calibro:
«Automa, Autore = Homo sapiens; Automa, Non autore = regno minerale et vegetale».
2. Il tema.
Ma qual è il tema de La Macchina Mondiale? Difficile più che mai ridurre il discordo a una semplice risposta (ma di questi problemi di metodo, ne abbiamo già parlato qui), in un testo dalla scrittura densa, lirica e vibrante; una scrittura degli opposti eppure sempre identificabile: che sa farsi evocativa quando si poggia sugli Appennini, ma anche tragica quando rappresenta la follia; quando le si chiede un’abiura. La sintassi si snoda come un corpo privo di ossa, la cui pelle si raggrinzisce e si gonfia di volta in volta. Questo disegno di frasi sa essere tanto breve ed epigrammatico quanto stanco e degradante, attorcigliato (sebbene mai convoluto), sempre intellegibile. Potremmo dire, per essere coerenti con il programma che ci siamo imposti in questa rubrica, che il tema di questo libro si riduce al rapporto fra ciò che si è e ciò che si pensa.

Anteo Crocioni, alla maniera dei filosofi antichi (quasi affetto da cronico stoicismo, non dimentichiamone la fine) intende il pensiero come sostanza; il pensiero come realtà di gesti e atteggiamento, come esercizio spirituale, per citare Hadot: «risposi soltanto che non avrei potuto abbandonare le mie idee, perché esse erano la mia vita, me stesso, e che quindi io non potevo abbandonare, per mia volontà, la mia vita e me stesso». E tuttavia questo sistema completo di teoria e prassi si scontra con il più banale dei sentimenti umani: l’amore (putacaso, come in Böll, uscito lo stesso anno); un amore violento, che non può essere ricondotto al nocciolo vitalistico dell’ideale dominante: una nuova società, una palingenesi che nasce dalla terra, dalla percezione di sé come proiezione altrui.
3. E oggi?
E come si esce da questa gabbia? Creando. Ma la parabola del Crocioni ci rammenta quanto sia difficile esigere dall’Altro la comprensione della nostra visione (ché è sempre un’intuizione, e che si squaglia nel linguaggio).
Pare che Crocioni, talvolta, confonda l’ammirazione e il consenso con l’affetto. Ed è qui che la prosa stride. È qui che il mondo rappresentato s’infiamma laddove la scrittura condensa. Il lettore empatizza con Anteo, fin dal simbolico bagno che lorda le acque del fiume (anche qui, come usare un’immagine trita in maniera nuova, fresca e sacra, quasi foscoliana). Eppure Anteo è un folle, un folle non soltanto geniale ma anche violento, aggressivo; un folle in cui la volontà di potenza, nonché di pensiero, rischia di essere troppo facilmente fraintesa con il nichilismo, il Bazarov di Turgenev si confonde con l’interpretazione più scadente (di solito, da destra) dello Zarathustra di Nietzsche in queste parole: «ma sappia, signor Consigliere, che io non sono un servo e che non temo né la sua autorità né la sua persona». Ma è proprio questa apparente confusione accademica e di correnti, irriducibile a una costante, che conferisce al pensiero di Anteo Crocioni una realtà oggettiva, materica, incoerente. L’Accademia dell’Amicizia deve passare dalla violenza nei confronti di chi si oppone? Se il Settembrini di Mann non lo vuole ammettere, l’Anteo di Volponi non solo lo ammette; agisce.
55 anni dopo, suo malgrado, Anteo Crocioni non è un filosofo e nemmeno un poeta. Anteo Crocioni è diventato ciò che non avrebbe mai voluto essere: un profeta; ma un profeta laico, annunciatore non di una verità ma di un pensiero, di un’idea; un profeta che intuì l’alienazione nel suo senso più ampio, sganciandola dalle dottrine marxiste e facendone un tratto antropologico, connaturato all’ingegno.
Lontano da ogni fantascienza (ma anche da ogni realtà, si veda in merito il viaggio di O’Connell) Anteo Crocioni annuncia che la macchina può creare, e non soltanto eseguire. Che noi siamo macchine, e che in ogni gesto c’è il rischio della alienazione: nel linguaggio come nell’amore.
A noi la scelta: macchine che creano (lentamente) o macchine che distruggono.