TEMPO DI UCCIDERE, ENNIO FLAIANO, ADELPHI, 2020.
Un unicum
«[Longanesi] lo ricordo per la semplicità con cui a Milano nel dicembre del ’46 mi disse: «Perché non mi scrive un romanzo?» Mi misi a ridere ma lui diceva sul serio. Lo scrissi». Diario degli Errori, [61].
Nacque così Tempo di Uccidere. Scritto in tre mesi, ma pensato per anni. Inizialmente intitolato Il coccodrillo – titolo rifiutato dall’editore – Tempo di uccidere è il romanzo che meno rappresenta l’immagine intellettuale che il nome di Ennio Flaiano evoca nei ricordi degli appassionati di cinema, letteratura, teatro, giornalismo. Del resto Flaiano (1910-1972) fu una delle penne più fluide del Nocevento – da un Marziano a Roma, rappresentato da Vittorio Gassman, sino a La Bella Vita, sceneggiato per Fellini – e la sua opera si può annoverare fra le più alte e leggere rappresentazioni di quella cultura che, nel dopoguerra, si era fatta perenne pars destuens della realtà, anti-ideologica e sincera sino al parossismo. L’umore delle pagine di Flaiano è stato ben descritto da Anna Longoni – la curatrice di tutti i volumi editi da Adelphi – come un pessimismo comico, prima che cosmico.

La scrittura
I lettori del Diario degli Errori o delle altre prose giornalistiche di Flaiano, sono abituati a pagine brevi, secche; perfetti esempi di brevitas stilistica. E rimangono straniati dalla forma di Tempo di uccidere: un romanzo; apparentemente un romanzo classico. Tutto comincia da una peripezia che rompe un equilibrio: un camion che si ribalta, un dente che fa male, qualche giorno di congedo, una donna che si bagna solitaria. E la scrittura – nonostante certi picchi – si adegua alla voce del personaggio, restando narrativa.
L’ironia, che è la vera cifra della voce di Flaiano, tuttavia non manca nemmeno in questo primo testo più canonico – sebbene lo stesso autore ebbe sempre toni di distacco, in seguito alla vittoria del Premio Strega, nei confronti del suo unico romanzo lungo. Quasi, scrive la Longoni, come se questo testo fosse una sorta di passaggio obbligato per entrare nel mondo delle lettere.
In Tempo di uccidere l’ironia non si manifesta in calembour, e nemmeno nella graffiante prosa dell’elzeviro, bensì nella caratterizzazione dei personaggi, nell’interpretazione dei gesti, nel tragico caso che scatena le vicende della trama, in scene che servono tanto a creare un’atmosfera rarefatta, surreale – una sorta di Africa mitica: «non abbiamo l’Africa ma una sua messinscena teatrale» scrive Anna Longoni – quanto a giocare con le distanze.
Prendiamo per esempio una delle scene iniziali, in cui il protagonista incontra un animale – un camaleonte – e gli offre una sigaretta:
Camminavo forse da un’ora quando vidi il camaleonte. Brava bestiola. Stava attraversando il sentiero con la cautela di un ladro che cammina sul cornicione dell’albergo preferito. Calmo, onestamente spaventato da quell’Africa piena di insidie, metteva una zampetta dietro l’altra con delicatezza. La vista delle mie scarpe non poteva turbarlo più di quanto già fosse e mettergli altri dubbi sulla necessità di proseguire. Dopo averle scrutate a lungo, incerto se montarvi sopra o no, volse le terga. Si affidava al mio senso d’onore. Non avrei osato colpirlo, non l’avrei distolto dalla sua accurata ricerca di cibo. «Una sigaretta». Gli infilai la sigaretta accesa in bocca. Se ne andò fumando, da buon diplomatico, sempre più spaventato di vivere, pronto a gettare la cicca per una mosca, pronto a tutto, ma talmente pigro anche lui!

La trama e il tema
La trama del romanzo è abbastanza semplice, sebbene non sia narrativamente coerente e lineare, come ebbero a sottolineare i primi, critici del romanzo, fra cui De Benedetti. E come, del resto, riferisce lo stesso protagonista – ma sul finale torneremo poi.
Un ufficiale dell’esercito italiano, durante la spedizione in Etiopia (siamo nel 1936), giace con una donna del posto; poi, per errore, le spara e la uccide. I rimanenti due terzi del romanzo raccontano i tentativi del protagonista di allontanarsi da questo gesto, che continua a perseguitarlo siccome la donna era malata di lebbra e sul corpo di lui cominciano a comparire piaghe.
Il tema di questo romanzo, verrebbe da dire, è la colpa. Leggendo le prime pagine, subito dopo l’omicidio, la memoria corre inevitabilmente a Raskolnikov, nonché, per rimanere in Italia, al Testori del Dio di Roserio, o, per certi versi, allo Zeno di Svevo. Ma c’è qualcosa che differenzia il tenente di Tempo di Uccidere dai protagonisti di questi romanzi: il protagonista di Flaiano è più lontano dalla colpa.
Ed è proprio questa lontananza il vero tema del libro.
Non a caso, il rimorso si manifesta non tanto nella mente – come in Raskolnikov – quanto nel corpo, con le piaghe; con la pallina sulla mano che somiglia all’immagine che il medico ha mostrato al protagonista e che sembra non lasciare margine d’interpretazione sulla natura del male: lebbra. Appunto in quanto malattia, questa colpa viene innanzitutto e ripetutamente negata, mai pienamente assunta, se non come gesto di malcelata pietà: la colpa si subordina all’effetto della colpa.
Dall’altro lato della vita, invece, sta l’Africa. Un’Africa totalizzante, che è vicina alle cose – pensiamo alla vicinanza di Johannes ai morti, di Elias alla terra – e che allontana gli estranei, velando l’altopiano e gli alberi di una patina sottile, diafana. E sono soprattutto gli abitanti dei piccoli villaggi da cui il protagonista passa a mostrare un legame con la terra – e si direbbe anche con la vita – che il protagonista di Flaiano ha perso.
Innanzitutto è il legame con il tempo, a essere diverso. Il sentimento del tempo. Sono tematiche che, in diverse forme, torneranno anche in altre opere, come in Adriano, il secondo racconto lungo di Una e una notte.

Tempo di uccidere, oggi: il problema del finale
La parte che maggiormente stride, al lettore d’oggi, è la fine. Un effetto che risuona similmente a quello del finale di Un Amore di Dino Buzzati. Come Antonio Dorigo ha bisogno della spiegazione dell’amica di Laide, nel finale del libro, così il tenente di Flaiano ha bisogno di mettere ordine nella sua storia, sulle sue caotiche vicende; ha bisogno di ragionare su di sé. Ma lo fa a beneficio dei lettori o per convenzioni ottocentesche, romanzesche? Difficile dirlo.
Il libro, in effetti, agli occhi del narratologo, sarebbe potuto finire con quella sorta di riconciliazione fra il tenente e Johannes – un anziano del luogo, l’unico rimasto nel villaggio da cui veniva Mariam, la prima donna che il protagonista incontra – che culmina con le cure per le piaghe. Con l’implicita possibilità che sia effettivamente lebbra, quella malattia; ma che per qualche altra ragione non lo sia. Ma Flaiano commenta, qui: e i suoi personaggi constatano quanto un lettore attento ha già avuto modo di decifrare.
Eppure, forse, proprio queste ultime pagine rendono il tenente il primo personaggio, il primo protagonista vero del mondo narrativo di Flaiano: un personaggio che, anche quando è immerso in una vicenda che lo riguarda, non lesina mai a un tentativo di commento; commento che, però, è sempre giustificazione, anche qualora sfiori l’autolesionismo «in fondo non l’avevo uccisa, le avevo impedito di soffrire più a lungo».

Così Graziano – il protagonista vitellone di Una e una notte – così Adriano, così i vari volti che compaiono nel Diario degli Errori. Il tema che pervade questo testo di Flaiano, seppure in forma aurorale rispetto al trattamento che subirà poi, è il distacco della vita moderna dalla vita vera; l’allontanarsi del pensiero astratto, dell’intellettuale, dalla vita, dal Tempo; la lontananza da qualcosa di cui si intuisce il fascino atavico e di cui è al contempo rimembrata l’irraggiungibilità, e che troverà la sua immagine apicale in questa scena di Adriano, quando l’omonimo protagonista si ritrova di fronte a contadini che parlano di Marco Aurelio come di un qualsiasi proprietario terriero, solo uno in più che ha avuto quella terra su cui ora, loro, scavano; loro che godono di quell’indifferenza del tempo che hanno i contadini, più legati al corso delle stagioni o a un modulo di tempo misurato sulla vita dell’uomo. E in questo sta la contraddizione; in questo la forza del tema: nel fatto che a questa coscienza si oppone un ingiustificata sete di vita:
«Voglio cadere a pezzi, rispondevo, ma vivere sino all’ultimo momento. Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo come questo, non posso lasciare nulla, nemmeno questo cespuglio, nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe, o le persone che odio: nulla».