INTERVISTA A VANNI SANTONI, A PARTIRE DA GLI INTERESSI IN COMUNE

Vanni Santoni (1978) dopo l’esordio con Personaggi precari, ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), la saga di Terra ignota (Mondadori 2012-17), Muro di casse (Laterza 2015), La stanza profonda (Laterza 2017, candidato al Premio Strega), I fratelli Michelangelo (Mondadori 2019).
Scrive sul Corriere della Sera e dirige la narrativa italiana di Tunué. Il 21 maggio uscirà per minimum fax il suo saggio La scrittura non si insegna.
1) Partiamo con lo stile: due punti mi sono segnato, a) la voce del narratore: i tuoi personaggi non hanno un lessico troppo marcato in senso dialettale (qualche particolare si coglie), ma mi ha stupito come sia spesso il narratore a piegarsi a questo influsso. Ho raccolto una sorta di lessico in comune. Ma per quanto riguarda il narratore, il tono lo hai impostato prima di scrivere o è nato scrivendo (che talvolta pare quasi più uno spettatore, un voyeur)? b) i caratteri tipografici: perché il maiuscolo? O meglio, perché preferirlo a un ‘gridò x’, ‘urlò y’? Ps: mi è piaciuto molto il diagramma sul tempo.
A quei tempi non ero pienamente consapevole del mio agire linguistico. Di certo sapevo che dovevo trovare un “gergale” che fosse il più possibile contemporaneo, di strada, per ragioni di realismo, e allo stesso tempo svincolato dal tempo, per evitare rischi di “attualismo”.
La soluzione – che ho trovato scrivendo: non avevo ancora abbastanza esperienza per fissare una voce prima – è stata quella di stemperare un po’ la “vera” lingua valdarnese di quegli anni, a volte portandola più sull’italiano corrente, e a volte affondandola nel volgare, ma sempre stemperando, perché in un testo scritto il dialetto, come il turpiloquio, risulta sempre sovraccarico se riportato “così com’è”. L’avvicinamento del narratore alla voce dei personaggi credo sia indispensabile per evitare irritanti toni “entomologici” (bleah).
Trovo che l’uso del maiuscolo per rendere l’urlato sia, tra le tante convenzioni nate (per ragioni autoevidenti) nella “lingua di internet”, una particolarmente efficace e diretta, sicuramente da includere nella prassi letteraria, specie quando un testo ha, come gli Interessi in comune, un piglio per lo più parlato.
2) Una cosa che ho notato (e apprezzato) nel tuo libro è il discorso che si può evincere in merito alla tecnica: nella storia si passa dalle lire agli euro; ad un certo punto entra internet, compaiono i primi cellulari. Eppure, rimanendo sul fondo, questi oggetti sembrano crescere con i tuoi personaggi in maniera naturale, senza scosse o facili entusiasmi; o meglio: questi oggetti sembrano fare parte della fissità che caratterizza tutti, nonostante il continuo cambiamento. In un periodo in cui tutti parlano di rivoluzione digitale, mi è piaciuta la capacità di dimostrare che di rivoluzionario questi strumenti hanno ben poco, se manca qualcosa di più profondo. Invece per la mia generazione si parla di nativi digitali, consumatori alienati della tecnologia, eccetera. A volte mi pare un modo per gonfiare un fenomeno di certo importante ma non così sostanziale come si vuole far credere. Insomma, mi è piaciuto che tu li abbia mostrati come strumenti, e non come ideologie.
Ps: e adesso, però, la mimesi narrativa può tenere il passo di whatsapp, di Facebook? Può sostituirsi ai milioni di auto-narratori?
Ti ringrazio per l’apprezzamento. Mi fanno sorridere quei narratori che inseriscono a forza le e-mail, i tweet o quant’altro per dare un’aura di attualità ai loro libri. Bisogna semplicemente raccontare le cose come sono, e se uno degli scopi, o meglio dei possibili intenti, della letteratura è guardare nel profondo delle cose, allora quasi tutti cambiamenti, anche quelli epocali rispetto alle nostre abitudini quotidiane, sono superficiali.
3) Questa è più un’impressione mia: fino a metà libro, per certi versi sembra quasi difficile distinguere i personaggi, a parte in due o tre casi (ad esempio, fin dall’inizio Iacopo è fra i più riconoscibili). Paiono solitudini affiancate per giustapposizione, e difatti si fa spesso notare come si conoscano poco fra loro. Pensi che fosse un tratto caratteristico di quegli anni? Perché non mi pare che ci sia una forte differenza esterno/interno, e difatti le famiglie quasi scompaiono nel tuo romanzo (a parte per Mimmo e Sandrone, ma comunque la casa è un contorno). Mi è tornato in mente un aforisma di Adorno, che preannunciava l’avvento di una generazione ostinata, autoritaria e irriducibile. Invece i tuoi personaggi mi sembrano l’opposto, e di irriducibile hanno solo il carattere, che non sembra mutare in maniera definitiva. Che cosa sarebbe successo a quei personaggi se la storia fosse continuata?
Circa il primo punto: mi interessava, nel raccontre il gruppo degli Interessi in comune, dare anche quell’impressione di “so’ tutti uguali” che ha a volte l’adulto superficiale, o distratto, alla vista di un gruppo di adolescenti, e far poi venire fuori le varie individualità.
Le famiglie, invece, sono deliberatamente escluse perché il fuoco e l’epicentro del libro doveva essere il gruppo del baretto. È la stessa ragione per cui si vedono poco le ragazze, fatto per cui mi beccai un “ma non sarà mica misogino?” da Inge Feltrinelli: come sa chiunque è stato adolescente o anche ventenne, quando sei nel gruppo, non ci son le fidanzate, e quando ti metti con una, sparisci per un po’ dal gruppo.
Leggendo Muro di casse si può incontrare uno Iacopo trentenne; mi pare diverso (di certo ha sviluppato un po’ della sensibilità che non aveva), ma non così diverso, del resto noi siamo la generazione che è stata adolescente per vent’anni e poi si è scoperta adulta quando c’era una bambina che giocava nel tappeto o ci siamo visti allo specchio scoprendo peli bianchi nella barba.
Lo stesso vale per il Paride trentenne della Stanza profonda, che di essere diventato adulto lo scopre nel modo più duro di tutti.
Diverso il discorso per il Mella che troviamo nell’Impero del sogno, e non solo perché è immediatamente successivo a quello degli Interessi in comune, quanto perché ciò che avviene lì ha luogo in un diverso piano di realtà che (probabilmente) corrisponde alla sua immaginazione; tuttavia è quello che, ancorché su un piano immaginario o inconscio, spinge fino all’estremo l’ostinata ricerca di una iniziazione.

4) In maniera abbastanza ironica, fai dire a uno dei tuoi che la tua generazione non ha più un rito di iniziazione. Mi sembra valga anche per la mia. Non sappiamo distinguere con certezza un momento di maturità, di pienezza. Ci ubriacano per non ammettere che probabilmente non avremo un futuro, e noi ce lo ripetiamo per non agire. Per stare. Non riusciamo a concepire la crescita, e la nascondiamo. Per quanto riguarda le mie sensazioni, questo fenomeno ha due effetti opposti sui miei coetanei: da una parte l’ascetismo e il rifiuto della vita biologica, dall’altro un rimasuglio poco convinto di quanto viene descritto nel tuo romanzo. E questo discorso ci porta più lontano. A una nota sul romanzo di formazione. È una cosa su cui rifletto da qualche tempo; ad un certo punto nel Novecento il romanzo di formazione collassa, regredisce. La Morante, Moravia, ma anche Musil e Joyce. Non c’è più un ricongiungimento con la società. Tutto questo ha una sua spiegazione e una sua storia, che non ho le conoscenze per giustificare. Un caso particolare però mi torna in mente: il Barbino di Busi, un personaggio che non si confronta con la negatività del mondo ma che vomita la propria contro tutto e contro tutti. E nel tuo racconto mi pare che la negatività dei singoli non tenda all’esplosione, quanto all’implosione: il Mella su tutti, che infatti scompare quasi senza rumore. Quella generazione aveva il destino di implodere, con il crollo delle grandi narrazioni?
Su questo ha scritto tutto nel modo migliore Jacopo Nacci sull’Indice, e ci è tornato sopra, ampliando il discorso in modo mirabile, Filippo Polenchi sulla Balena Bianca. Rispondono meglio di quanto potrei fare io.
5) Sempre collegata alla questione di prima: a che cosa si oppongono questi ragazzi? Hanno un interesse (multiforme) in comune, che nelle relazioni di coppia arriva a surclassare perfino l’erotismo e il corpo. Forse ho inteso io male alcuni punti del testo, però mi sembra che in certi casi si voglia proporre una riflessione sul tema degli stupefacenti (come durante la prima gita ad Amsterdam). Non vorrei entrare in un discorso troppo lungo e complesso, però mi è passata l’impressione che per questi ragazzi le droghe potrebbero essere molto di più che un interesse in comune, potrebbero essere un modo per ampliare la percezione del mondo esterno, un legame gnoseologico, una lente sulle cose. Eppure non ne hanno consapevolezza, e nelle droghe sembrano cercare altro, una cenere spenta. E quindi ti chiedo: quanto determinismo c’è nei tuoi personaggi? Quanta libertà hanno? Perché in fondo mi sembra che il dibattito sulle sostanze abbia molto a che fare con i temi dell’identità e del libero arbitrio.
La tua interpretazione è corretta, del resto i protagonisti degli Interessi in comune, per quanto cresciuti in un contesto e in un’epoca in cui le sostanze venivano presentate come “tutte uguali”, istintivamente cercano (e tendenzialmente prediligono) il carico conoscitivo e gnostico degli psichedelici, carico che possono solo intuire nella pratica, non avendo dalla loro le “categorie dello spirito” necessarie a dominarlo, né tantomeno una società attorno che guardi con favore questi, ancorché goffi, tentativi di creare piccole Eleusi.
Se il problema fosse stato semplicemente il disagio della provincia, avrebbero trovato sponde certamente più efficaci nei narcotici, nella coca o nell’alcol, sostanze che pure sperimentano e a volte abusano ma rispetto alle quali mostrano un interesse ridotto.
Sulla libertà: non credo stia all’autore giudicare i personaggi, penso stia ai lettori farlo; tendenzialmente, quando scrivo, lascio sempre che sia il personaggio, via via che si forma a partire dalle suggestioni iniziali (e si forma agendo, magari in scene che poi neanche finiscono nel romanzo), a indicare e creare la propria strada, quindi intuitivamente direi che penso di lasciarli abbastanza “liberi”, anche se le cose cambiano da libro a libro, ad esempio in Muro di casse ho ripreso Iacopo perché uno Iacopo trentenne rispondeva specificamente alle funzioni che desideravo dal protagonista della prima parte (un edonista irriducibile che fosse però anche abbastanza sveglio da offrire una sua lettura delle cose), mentre ho creato Cleo e Viridiana in modo molto deterministico, pensando chiaramente al loro scopo, in un libro costruito sulla tripartizione sensi/intelletto/spirito. La cosa interessante, e che credo ci dica qualcosa sulla natura dell’arte letteraria, è il percorso avuto da questi due personaggi: Viridiana, la quale possiamo dire sia “rimasta lì”, e quindi personaggio pienamente determinato dall’autore, era la riduzione di un personaggio più “ampio” e strutturato – Isabella Gelli – pensato per un romanzo, scritto poco dopo l’uscita degli Interessi in comune e poi rimasto inedito (e che ho preferito lasciare inedito anche quando, anni dopo, in virtù del buon successo di Muro di casse e La stanza profonda, mi è stato proposto di pubblicarlo); Cleo (all’anagrafe Cleopatra Mancini), invece, pur ideata come personaggio-bozzetto, per il solo scopo che doveva assolvere in Muro di casse – fornire una lettura sociologica e materialista del fenomeno dei rave party –, ha chiesto spazio: prima si è presa un racconto lungo (Emma & Cleo, uscito originariamente nell’antologia L’età della febbre pubblicata da minimum fax nel 2015) e ora, non senza il mio sbigottimento, è diventata la protagonista unica del romanzo che sto scrivendo. Mi pare quindi che la letteratura, essendo, quando è onesta, e anche nei libri più “programmatici”, un processo di esplorazione di possibilità, nonché di continua costruzione e risoluzione di enigmi, non possa prescindere dal dare un certo grado di libertà ai personaggi.

5) Un’altra domanda sui tuoi personaggi: correggimi se sbaglio, ma mi sembra che manchi del tutto una prospettiva politica nella loro visione delle cose. Non che il libro non la tratti, anzi. Il tuo libro è, in parte, anche una denuncia della crisi della politica. Quanto era volontaria questa idea? È un’assenza voluta?
Premesso che Gli interessi in comune racconta anche una generazione che ha perlopiù perso contatto con la politica, e quindi in quel caso è anche una mera questione di realismo, non mi piacciono i libri di narrativa che cercano di somministrare deliberatamente specifici messaggi politici.
La fiction è un’arte, e l’arte non deve essere mai al servizio di alcuna ideologia, per la semplice ragione che divenire pedanti e didascalici è un attimo. Ho cercato di stare lontano da questo rischio anche in romanzi, come Muro di casse, in cui lo “statement” politico è implicito e in cui la mia posizione è netta e di parte. Detto ciò, la buona fiction è intrinsecamente politica, perché non può prescindere dall’affrontare nodi chiave dell’esistere umano, e tra questi il modo in cui si sta in società è quasi sempre presente.
6) Ho iniziato a leggere le tue opere con Gli interessi in comune. Che tragitto consigli a chi, come me, ha incominciato recentemente da qui? Per personaggi, per temi? Io penso di buttarmi sui Fratelli Michelangelo.
Non credo spetti all’autore dire ai lettori in che ordine leggere i suoi libri. Se vogliamo, si può far notare che Muro di casse, La stanza profonda e L’impero del sogno hanno un collegamento più diretto con Gli interessi in comune avendo ciascuno un personaggio in comune con esso, ma non mi sembra ragione sufficiente per vincolare a un certo percorso di lettura, anche perché sono tutti libri indipendenti tra loro.
E poi l’autore è sempre più contento se si legge il suo libro più recente, quello per cui la fatica è ancora viva nella memoria, quindi… Fammi sapere se I fratelli Michelangelo ti è piaciuto, e grazie!
7) Ti rimetti mai a rileggere parti dei tuoi libri (se sì, quante volte ti viene voglia di ri-editarti)?
No, mai. Libro pubblicato, capitolo della mia esistenza chiuso. Li riprendo in mano solo se qualcuno mi chiede di fare una lettura pubblica o di scegliergli un estratto per una rivista. E quando ciò avviene, mi reimmergo in apnea, cercando di far più veloce possibile.

8) Una domanda che m’incuriosisce. Come conciliare l’estetica orientale, cui spesso mi pare tu faccia riferimento, con la nostra estetica, con il nostro modo di raccontare storie? Non parlo soltanto dei temi, ma della forma che quei temi prendono. Pensi che la lettura di quelle opere abbia influito anche sul tuo modo di trattare certi problemi?
Per me opere come la Bhagavad-Gita, il Rig Veda, la Sutra del Loto o il Kumarasambhava, o ancora il Vivekachudamani o La conoscenza del tremendo, sono state e sono fondamentali, stanno tra i pilastri della mia formazione al pari dei grandi romanzi ottocenteschi, della poesia inglese e francese dello stesso secolo, della nostra letteratura medievale, dei modernisti o della narrativa americana e sudamericana del secondo Novecento.
Lo stesso vale, spostandoci dall’India alla Cina, per il Tao t’e Ching, l’I-Ching, l’Arte della guerra o lo Zhuang-zi, libri capitali della mia giovinezza pre-scrittoria, che magari si “sentono” meno oggi che sono più influenzato dal pensiero indiano, ma comunque da qualche parte, là sotto, ci sono ancora.
Mi viene quindi naturale includere tali suggestioni nei miei lavori, a volte non solo in termini di influenza ma anche riprendendo in modo radicale le forme di quei testi, come avviene ad esempio nella “parte di Rudra” dei Fratelli Michelangelo. Trattandosi di capolavori, non è poi così difficile “usarli” e lasciarsi influenzare: brillano di luce propria.
Va detto poi che la nostra cultura ha sempre vissuto di un sotterraneo scambio tra oriente e occidente, ora più forte, ora più debole, ma mai assente… Chiedere a Schopenhauer, che definì le Upanishad “l’emanazione della più alta saggezza umana”.
9) Nel prossimo numero mi occuperò della Macchina mondiale di Volponi. Questo libro è irreperibile, ormai è disponibile solo in raccolte più ampie. Già Moresco agli inizi del 2000 si lamentava di questa perdita. Quindi ti chiedo: quanta importanza ha per te (visto anche il tuo ruolo in una casa editrice) il libro in sè? Non voglio qui buttarti lì una domanda generalista sul doloroso dibattito ebook-librocartaceo-serietv. Forse ciò che ti chiedo si riassume in questa semplice questione: per un autore, è più importante un libro o l’insieme dei libri? È più importante che circoli il pensiero di Volponi (spesso conosciuto per astratto, in manuali) o La macchina mondiale?
Per un autore è importantissimo che la sua intera opera sia disponibile. La gioia che ho provato quando ho firmato per la riedizione degli Interessi in comune è stata pari a quella per un nuovo libro, se non superiore, dato che innumerevoli volte ero stato contattato da lettori che, avendomi conosciuto per altri libri, adesso volevano leggerlo ma non riuscivano a trovarlo.
Che c’è di peggio? Se vale per me, vale ancor più per autori imprescindibili del nostro canone come Volponi. È vero che la digitalizzazione ha reso più facile ottenere, se non altro, i file di tanti libri indisponibili, ma un file non è un libro, e non lo sarà mai.
10) Ti viene in mente qualche recupero (nell’ottica delle ripubblicazioni di opere difficilmente reperibili) importante negli ultimi anni?
Credo moltissimo nella necessità dei recuperi, ma avendo lavorato anni nell’editoria so anche che sono difficili da fare, dato che attirano molto meno l’attenzione di giornali, riviste e in generale di chi scrive e parla di libri rispetto alle novità.
Di conseguenza, a meno che non si tratti di autori celeberrimi che magari hanno pure una novità in uscita, vendono meno, a volte molto meno, del “normale”, e farli è sempre un rischio per la casa editrice. Con Tunué sono riuscito a ripubblicare Ricrescite di Sergio Nelli, che era uscito ormai più di quindici anni fa per Bollati Boringhieri, e ripubblicherò in volume unico la collana “Zoo” a suo tempo diretta da Giorgio Vasta e Dario Voltolini, raccogliendo quindi in un solo libro i vari micro-romanzi a tema animale di autori come Genna, Lagioia, Mozzi, Santangelo e tanti altri bei nomi della nostra narrativa.
Tra i recuperi recenti mi sembra interessante il lavoro che sta facendo minimum fax con Giovanni Arpino, e vedo in arrivo, grazie al centenario, un interessante ritorno in auge di Carlo Coccioli; un testo che mi sarebbe piaciuto molto fare è Il pantarèi di Ezio Sinigaglia, romanzo ambizioso e atipico, uscito un quarto di secolo fa per una casa editrice minuscola, da tempo indisponibile fino alla sostanziale scomparsa e oggi ripubblicato da TerraRossa, casa editrice che proprio dei recuperi ha fatto linea editoriale, e a cui auguro quindi il meglio.
11) Un’ultima domanda; anche se forse è più una proposta. Leggere per me significa isolarmi, purtroppo. Mi pare di coltivare un linguaggio desueto, un alfabeto spento. E questo sentimento mi opprime (nonostante brevi lampi di estasi). Come recuperare il senso comunitario della letteratura? A volte penso ai reading in pubblico, ma ho sempre il timore che ci sia il pericolo di una spettacolarizzazione. Tu che ne pensi?
Ho sempre considerato la letteratura come un’attività sociale, naturalmente col paradosso che non sono “sociali” né la scrittura di un libro né la sua lettura. E certo i reading possono essere divertenti – noi ne organizzavamo uno molto divertente, “Torino una sega”, in cui i lettori erano invitati a portare un testo proprio e uno altrui, scegliendo brani che fossero il più possibile forti, scioccanti, high-charged texts, citando Ginsberg e ciò che chiedeva di portare ai loro reading conditi di psichedelici – ma sono tutt’altra cosa.
La dimensione sociale della letteratura per me corrisponde al fare riviste, e quindi non solo allo scrivere, ma confrontarsi, vagliare, mettere assieme, pubblicare, promuovere, magari anche leggere pubblicamente ma sempre in funzione del progetto che c’è dietro. Quando un aspirante mi chiede cosa debba fare per diventare uno scrittore, gli dico sempre: unirti a una rivista, o ancora meglio fondarla tu stesso.
12) Ultimissima. Questa è per me: quale fu il libro galeotto che ti risucchiò nel vortice della letteratura?
L’antologia di inglese di quarta liceo. Conteneva poesie di Blake, Coleridge, Yeats, Eliot. Mi parlarono con parole potenti, proprio come all’indiano di Dead Man. Ma fecero di me solo un lettore. Per fare di me uno scrittore non bastò un libro (né ne bastarono mille altri): ci volle – appunto – l’incontro con un gruppetto di persone che realizzavano una rivista, e che mi fecero vedere quanto poteva essere bello anche provare a farla, questa benedetta letteratura.